Ieri la capitale yemenita Sana’a ha alzato la voce. Dicono fossero centinaia di migliaia, ma la folla sterminata catturata dalle immagini sembra superare di gran lunga il milione di persone.

Lunghe bandiere dello Yemen a coprire i manifestanti, migliaia sventolate da donne e bambini, ragazzini con i colori nazionali sulle guance: hanno protestato contro la campagna militare lanciata da Arabia Saudita, resto del Golfo e Egitto e dichiarato sostegno al consiglio politico formato nei giorni scorsi dal movimento ribelle Houthi e dal partito dell’ex presidente Saleh.

Un’alleanza di mero interesse: per anni la minoranza sciita si è ribellata alla dittatura dell’ex presidente, fino al 2011 coccolato da sauditi e statunitensi. L’ultimo conflitto si è aperto nel 2004 per condurre alla “primavera” yemenita e alla cacciata di Saleh. Oggi combattono fianco a fianco contro l’operazione Tempesta Decisiva voluta da Riyadh per riprendere il controllo del paese tramite il nuovo protetto, il presidente Hadi.

A sostenerli ieri in piazza Tahrir c’era Sana’a: la gente, nonostante il caldo soffocante dell’estate yemenita, ha ascoltato il discorso del presidente scelto per guidare il consiglio politico, Saleh al-Samad, leader Houthi.

La mossa unilaterale dei ribelli risponde allo stallo nel negoziato promosso dall’Onu: in Kuwait il dialogo ha portato ad un nulla di fatto, naturale prodotto delle precondizioni delle parti. Nonostante l’accettazione da parte Houthi della risoluzione Onu 2216 dell’aprile 2015 che chiede l’abbandono delle armi e delle zone occupate dal settembre 2014, Hadi e Riyadh hanno rifiutato un esecutivo di unità che riconoscesse alla minoranza l’inclusione politica che chiede da decenni.

Non a caso al-Samad ieri ha ribadito che il consiglio avrà il compito di promuovere la riconciliazione nazionale e formare un governo di unità. Ma la reazione saudita alla manifestazione di massa è arrivata a stretto giro: i jet di re Salman hanno centrato il palazzo presidenziale e l’area intorno a piazza Tahrir: in molti sono fuggiti per paura di essere colpiti.

Alle parole di condanna (a cui fa eco l’Onu che non riconosce il neonato consiglio) seguono dunque i fatti. Le ultime settimane sono state segnate da un’escalation dei raid di Riyadh, soprattutto sulla capitale, stragi di civili e azioni Houthi al confine nord con missili lanciati verso il territorio saudita.

Venerdì gli ultimi massacri: i caccia della coalizione hanno colpito una casa a al-Jawf, uccidendo Abdullah al-Sharif e i due figli; un mercato nella provincia di Khabb, 2 morti; la zona costiera di Hudaydah, 4 vittime; un’automobile civile a Sa’ada, 2 uccisi. Una carneficina continua che porta il bilancio delle vittime da marzo 2015, inizio della guerra, a 10mila morti e 3,1 milioni di sfollati (dati Onu).

Non si salva nessuno: dopo quattro cliniche distrutte dai sauditi, l’ultima martedì, Medici Senza Frontiere ha deciso di evacuare gli altri sei ospedali che gestisce nel nord dello Yemen. Non c’è sicurezza, nonostante lo staff l comunichi ripetutamente al comando saudita le coordinate dei centri medici.

Riyadh ha reagito con uno incomprensibile stupore, dicendosi «estremamente rammaricata» e chiedendo a Msf di ripensarci, o a pagarne le conseguenze sarà la popolazione civile. Quella bombardata da un anno e mezzo, così frequentemente e senza alcun rispetto del diritto internazionale che anche gli Stati Uniti pensano a salvarsi la faccia.

Se con una mano Washington rifornisce di armi l’esercito saudita, con l’altra richiama i consiglieri militari mandati a Riyadh all’indomani del lancio di Tempesta Decisiva. Le critiche internazionali montano anche nei confronti del sostegno acritico degli Usa all’alleato.

Per questo, dopo il sì del Dipartimento di Stato alla vendita di carri armati e mitragliatrici dal valore di 1,15 miliardi di dollari (dal 2010 al 2015 110 miliardi di dollari in armi sono arrivati ai Saud da oltreoceano), ieri l’esercito Usa ha svelato di aver ritirato a giugno il personale che coordinava le operazioni con Riyadh.

Dei 45 consiglieri ne restano 5. In questo anno e mezzo lo staff Usa ha fornito intelligence, addestramento, assistenza legale e tecnologie nella guerra agli Houthi. Il ritiro, precisa Washington, non è legato alla crescente preoccupazione per i crimini di Riyadh. Ufficialmente, perché funzionari Usa anonimi dicono l’opposto: la Casa Bianca sta pensando di rivedere il sostegno all’alleato per evitare di finire con lui nell’occhio del ciclone. Senza però mettere in pericolo i lucrosi affari.