Giovane città affacciata sul Mar Baltico, con la storica Danzica e la rinomata Sopot, Gdynia forma l’agglomerato urbano chiamato Trojmiasto, la tripla città. Costruita negli anni ’20 del secolo scorso come sbocco sul mare della Polonia ritornata indipendente dopo il primo conflitto mondiale, laddove prima non esisteva che un villaggio di contadini e pescatori casciubi, meta di villeggianti con lo sviluppo del turismo balneare, a pochi anni dalla sua creazione Gdynia divenne un grande e moderno porto, strategico per i traffici commerciali.
La storia della Polonia contemporanea passa per l’architettura modernista della città, che con spiagge sabbiose, navi museo e acquario, è tra le principali attrazioni della cittadina rivierasca.

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Non solo, perché Gdynia è stata al centro di uno degli episodi più drammatici per la Polonia comunista, consumatosi davanti ai cantieri navali Kommuna Paryska il 16 e 17 dicembre 1970, durante l’ondata di scioperi che avevano fermato cantieri e fabbriche baltiche per protestare contro gli aumenti dei prezzi dei generi di prima necessità introdotti dal governo di Gomulka, quando l’esercito e la milizia aprirono il fuoco sugli operai che, in risposta all’appello delle autorità, si erano presentati ai cancelli dei cantieri per riprendere il lavoro. Si contarono quarantaquattro morti e centinaia di feriti. Gdynia, con i suoi 250.000 abitanti, non possiede il romanticismo della millenaria e più popolosa Cracovia, né i cool jazz club che animano la città meridionale, tuttavia gode di una vivace scena culturale, di cui uno dei fiori all’occhiello è Globaltica.

Gdynia World Cultures Festival, manifestazione approdata quest’anno all’undicesima edizione, svoltasi dal 22 al 26 luglio, segno di un più vasto movimento musicale, vibrante anche per l’esistenza di numerose rassegne annuali di matrice world e neo-tradizionale a Varsavia, Poznan, Lublino, Wrocklaw e Cracovia. Mente e cuore di Globaltica è il giovane e intraprendente Piotr Pucyo, un passato di musicista con la folk-reggae band Berkljdy. Ha diretto la Orange World, la prima e la più importante etichetta discografica polacca di produzione e distribuzione di musiche world; ha scritto per riviste e condotto programmi radiofonici. «Globaltica è un festival con una missione – spiega Pucyo – Ci preoccupa attirare il pubblico con un programma che non dia solo divertimento, ma che istruisca. Per questo nostro obiettivo, manteniamo i prezzi dei biglietti bassi. Globaltica non è un festival commerciale». Con dieci anni di storia alle spalle, la rassegna conta su presenze che oscillano tra cinquemila e i settemila spettatori. Vanta una meticolosa efficienza organizzativa e un cartellone sempre di alto profilo.

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Il festival è ospitato nello storico e magnifico parco Kolibki, esteso polmone verde della città, con due palchi, uno più raccolto, concepito per i performers acustici, allestito nell’ottocentesco deposito di carrozze, un secondo palco, quello principale, collocato all’aperto. Tra gli eventi collaterali del festival ci sono film, incontri letterari e teatrali, workshop di strumenti musicali e attività per i bambini, perché l’atmosfera che si respira a Globaltica è tranquilla, familiare, intergenerazionale, come quella di un grande picnic nel parco. Nondimeno, è un pubblico che riserva grande attenzione alle musiche, mai vetrina esotica di culture, ma propongono artisti che parlano il linguaggio della contemporaneità.
Dopo la giornata d’apertura riservata alle danze con i gruppi polacchi Kapela Przewockiego, Kapela Delaturów e il suonatore di cymbalom Piotr Krupski, la rassegna si è aperta al resto del mondo con l’esibizione nella raccolta Stara Wozownia, di Stella Ramisai Chiweshe, la prima donna a strappare all’egemonia maschile la mbira, il lamellofono suonato con pollice e indice, dotato di tasti di metallo montati su una struttura di legno collegata a una cassa di risonanza in zucca. Stella ha iniziato a suonare la mbira ai tempi in cui lo Zimbabwe era ancora ancora la razzista Rhodesia, epoca in cui lo strumento era bandito perché strumento rituale della tradizione shona, ma era simbolo di rivolta contro il potere bianco.

Il timbro ipnotico della mbira è architrave della musica dello Zimbabwe e Stella Chiweshe ha dato un assaggio di questo viaggio spirituale. Con il trio (sitar, santoor e voce, tabla) di Ustad Dharambir Singh ci si è spostati in un altro mondo d’arte di elevata specializzazione, qual è la musica indostana: un set di raga della sera, guidato dall’autorità musicale del maestro sitarista.

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È toccato alla Janusz Prusinowski Kompania aprire le danze sul main stage, venerdì 24. Prusinowski è uno dei più attivi musicisti che hanno rivitalizzato il mondo della musica tradizionale polacca, riportando al centro dell’attenzione gli anziani maestri dei villaggi della Polonia centrale, con un focus sui repertori della mazurca (è il promotore del festival «Tutte le mazurche del mondo» a Varsavia); il suo quartetto è a geometria variabile, capace di far danzare il pubblico – cosa che è puntualmente avvenuta al Kolibki, con il bassista sceso dal palco a condurre le danze – ma anche di sedurre con combinazioni sonore più innovative apportate dai intreccio di violino, fiati popolari e tromba. Ben congegnato il gipsy-swing multiculturale dei berlinesi di residenza Django Lassi, mentre l’indie folk-rock del quartetto Ajinai, cinesi della Mongolia Interna, imperniato sul «canto di gola» e sullo strumento iconico, la viola tradizionale morin khuur che fa da bordone ritmico e da portatore di melodia, mostra ancora tratti acerbi.

Manca di quell’agilità percussiva messa in scena dai mattatori cubani Soneros de Verdad, guidati dalla strabordante presenza scenica di Lusi Frank Arias, dallo sfavillante tres di Sergio Veranes e dalla tromba di Làzaro Dilout. Una costante del festival è la volontà di attirare l’attenzione del pubblico su temi sociali; così il filo rosso che ha attraversato la manifestazione di quest’anno è stata la situazione politica e culturale del Mali, con la proiezione di Timbuktu, il film di Abderrahmae Sissoko, del documentario The Last Song Before the War di Kiley Kraskouskas che cattura i suoni del Festival au Désert, e con il concerto, sabato 25, di Malikanw, le «Voci del Mali», un progetto legato al «Festival au Désert in Esilio».

Com’è noto, la manifestazione con sede a Timbuktu è stata interrotta dopo l’attacco fondamentalista nel nord del Paese nel 2012, né la fragile pace ha consentito il suo ritorno nell’antica città maliana. Per sensibilizzare l’opinione pubblica tre manifestazioni musicali: il Festival Taragalte di M’hamid in Marocco, e i due festival maliani: il Festival au dèsert e il Festival sur le Niger di Ségou si sono riunite creando la Carovana Culturale per la Pace per promuovere la comprensione, la diversità culturale e la coesione sociale tra i popoli del Sahel e del Sahara. Sul palco è salita una band di nove elementi, con il chitarrista Samba Touré, il virtuoso del violino monocorde Zoumana Tereta, il chitarrista tuareg Ahmed Ag Kaedy, il canto di Sadio Sidibé dal Wassoulou, Petit Goro dal paese Dogon, la voce mandinga di Cheick Siriman Sissiko, Ben Zabo, rappresentante del popolo Bobos, e Mariam Koné, cantante di impronta hip hop e R’&’B.

Non meno potente il maturo sound del riccioluto Aziz Sahmaoui & University of Gnawa, con il suo mélange dal grande impatto di chaabi, rock, ritmi gnawa e tinte subsahariane. Sul filo della memoria tra mondo giudeo-sefardita, modi ottomani e tempi dispari balcanici si è mosso il set acustico del quartetto serbo Shira Uì’tfila, che ha ospitato il dotato percussionista Yinon Muallem. Naturale chiudere la calda notte di sabato e la tre giorni nel verde con il samba-choro di gusto internazionale proposto da Osman Martins & Samba da Candeia, che tra standard brasileiri e virtuosismo del cavaquinho, ha fatto ballare il pubblico, accorso sempre numeroso. Sì, perché venue del concerto conclusivo di Globaltica è stato il Klub Atlantic, ex cinema ed ex supermercato, trasformato, per fortuna, in un bel centro per concerti e performance teatrali, dove si è esibito il collaudatissimo trio dell’oudista libanese Rabih Abou-Khalil in compagnia dell’ottimo percussionista statunitense Jarrod Cagwin e del nostro Luciano Biondini, fisarmonica dal temperamento emozionale, mai sopra le righe, tenera e drammatica nel conferire profondità alle tessiture del trio. Gustoso affabulatore quando racconta dell’origine dei titoli delle sue composizioni, con il liuto a manico corto Abou-Khaiil opera su coordinate musicali, che privilegiano un uso elaborato di tempi composti, notevoli variazioni ritmico-armoniche e passaggi improvvisativi. Il suo set ha confermato la mirabile sintesi musicale, e il pubblico ha tributato una standing ovation, ripagata da due lunghi encore del trio.