Per moltissimi Mario Tronti è un pensatore inchiodato alla sua opera giovanile del 1966, Operai e capitale, che raccoglieva scritti militanti prodotti nella sua breve ma intensa esperienza operaista. Questo luogo comune diffuso fa torto a un percorso ricco di svolte, che ha conosciuto fasi distinte, in primo luogo attraverso una riflessione tormentata sulla (relativa) autonomia del politico, dove Tronti si affermava come studioso capace di interrogare i classici e il loro lascito; negli ultimi tempi, le istanze fondamentali della sua ricerca sono state la riflessione sulla sconfitta storica della parte in cui aveva militato, rievocata nei foschi bagliori della «politica al tramonto», e una problematica riflessione sulla mistica e sulla spiritualità religiosa del cristianesimo.

Non tutto è chiarissimo nelle implicazioni contenute in quest’ultima fase. In particolare, ha suscitato qualche perplessità l’infatuazione di Tronti, condivisa con altri esponenti della tradizione del comunismo italiano, per il modesto pensiero di Joseph Ratzinger.
In ogni caso i filoni terminali della sua ricerca confluiscono nel suo ultimo libro Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (Il Saggiatore 2015, pp. 316, euro 20), che attraverso politica e religione tende a delineare un sofferto bilancio del Novecento, della sua grandezza e della sua sconfitta.

Il punto di vista complessivo di Tronti sul Novecento appare mutato rispetto al bilancio che aveva tratto sul finire di quella esperienza. Nel 1999, nella Prefazione a Il passato del Novecento (manifestolibri) ne aveva parlato come di un secolo senza eredità e senza futuro, artefice di «progressi regressivi», che aveva distrutto le speranze create dal grande Ottocento, lasciando ai posteri una mediocre deriva intrisa di nostalgia. E nostalgia di un Novecento – fin troppo circoscritto, come vedremo – c’è ancora, ma oggi per Tronti il Novecento è «il cuore di tenebra» che riconosce come «cosa sua».

Critiche alla rivoluzione russa
Non è questo un libro facile, ricco com’è di rimandi a una messe quasi sterminata di aforismi e citazioni, da cui l’autore ricava ammonimenti preziosi sui pericoli cui è esposta la libertà nell’affermazione incontrastata della «democrazia» (è il risvolto più utile e stimolante del libro). I frammenti coi quali Tronti ha puntellato le sue rovine sono però in particolare il giovane Hegel e il giovane Luporini esistenzialista e premarxista, e poi Walter Benjamin, Aby Warburg, ma anche il Tocqueville della Democrazia in America e alcuni gesuiti del Seicento.

Lo sforzo del lettore deve però concentrarsi soprattutto sui nodi «forti» dell’argomentazione, riflettendo in spirito di libertà sulle implicazioni non sempre chiarissime e conseguenti del pensiero dell’autore. Ci sono dichiarazioni molto impegnative, che vanno ben oltre l’antica propensione, da Tronti teorizzata assieme ad altri, sull’uso rivoluzionario del grande pensiero conservatore. «La mia idea è che la Rivoluzione d’ottobre somiglia più alla rivoluzione conservatrice che alle rivoluzioni borghesi». Le assonanze andrebbero ricercate nella critica resistente al dilagare del Moderno nella sua veste «democratica», che è il vero nemico individuato e ribadito nell’arco di tutto il libro. La critica della rivoluzione bolscevica investe non la sua origine rivoluzionaria ma il suo sviluppo socialista («il socialismo ha sconfitto la rivoluzione operaia»), la volontà di fare il «socialismo subito» smentendo la «geniale intuizione» del Lenin della Nep, la teorizzazione di una «via socialista al capitalismo, anzi alla realizzazione dello sviluppo del capitalismo in Russia diretta, guidata, orientata dalla presa di potere bolscevico. Un modello, oggi niente affatto estinto».

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In effetti, una gran parte delle critiche volte al principio democratico sembrano riecheggiare quelle del grande pensiero liberale ottocentesco, come anche della diffidenza aristocratica nei confronti della «società di massa» espressa negli anni tra le due guerre da Ortega y Gasset e molti altri. «Liberalismo e comunismo hanno avuto lo stesso destino, di vedere le idee di fondazione rovesciarsi nel loro contrario». La riconciliazione tra le istanze di filoni storicamente contrapposti sembrerebbe possibile oggi nella comune avversione nei confronti della «democrazia reale» che stritola le differenze omologando il pianeta.

Quanto all’«organismo vivente» di cui Tronti si è sentito «particella insignificante», il suo compito attuale è delineato in questi termini: «Quella cosa semplice, difficile da fare, che è il comunismo non ha l’esigenza etica, ma il compito politico, dentro la critica del Moderno, di sottrarre l’idea di libertà all’orizzonte borghese, lasciando al capitalismo la sua democrazia. Tutto questo libro vuole argomentare questa tesi». La stessa questione dei totalitarismi novecenteschi va ricondotta a questa dicotomia: «i totalitarismi non sono un prodotto del Novecento, sono l’esito del Moderno, della sua volontà di potenza senza limiti».

Un secolo eurocentrico
Libertà vs. Democrazia, dunque: questa è l’essenza del messaggio trontiano, che ricorre in tutta l’opera. Sono tante le obiezioni che si potrebbero muovere a questo schema, costantemente e quasi angosciosamente ripetuto (ed è proprio l’angoscia, l’assenza di compiacimento, che differenzia nettamente le riflessioni di Tronti da quel «Grand Hotel dell’Abisso» su cui ironizzava György Lukács nel 1954, cui pure esteriormente alcuni toni potrebbero somigliare).

In primo luogo noterei che il Novecento di Tronti sembra nettamente eurocentrico e dalla portata temporale limitata. Forse anche meno che eurocentrico, proponendo la centralità di Germania e Russia, «i due attori che hanno recitato da protagonisti la storia del Novecento, di fronte a cui tutti gli altri hanno fatto da comparse. Gli Usa sono sempre entrati in gioco a partita già iniziata, come attaccanti di riserva». «Secolo americano? Falso, semmai secolo della Finis Europae», che vede la vittoria finale della Zivilisation sulla Kultur.

Oltre il colonialismo
C’è qui la singolare riproposizione di un limite della Terza Internazionale, che si disinteressò completamente degli Usa nelle sue analisi (ma con un occhio attento rivolto all’Asia, che sembra mancare del tutto nel mappamondo trontiano). A giochi fatti, però, una considerazione retrospettiva del secolo non può ignorare o porre in secondo piano gli Stati Uniti, se non altro come luogo privilegiato di elaborazione e irradiazione del temibile Moderno che tutto pervade.

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Anche il limite temporale del secolo è conseguente a questa visione. Tutto si gioca in sostanza tra il ’17 e il ’45. Succede poi una sorta di «storia minore», premessa di quella che ci è stato dato di vivere («Questo è il primo dato di coscienza che dovrebbe assumere oggi la persona pensante»). Ma in questo modo si sopprime la parte migliore del Novecento, quella effettivamente rivoluzionaria, che vide l’ingresso nella storia comune di masse sterminate di donne e uomini che si liberavano dal dominio coloniale dell’Occidente. E che davano vita a una idea e a una pratica di liberazione che di fatto ha superato e talvolta soppiantato quella antica. Senza Algeria, Cuba, Cina, Vietnam, Cile, Palestina, Sudafrica, ecc. l’idea di rivoluzione nella seconda metà del Novecento sarebbe circoscritta in termini improbabili, al grigio burocratismo degli abbracci tra Breznev e Honecker.

La scelta della tradizione è altro concetto-cardine del libro, che ricorre spesso, perché una tradizione si sceglie, si costruisce, non è semplice acquisizione di una eredità, «non un dato ma un moto». L’«uso strategico del passato», che elabora «una proiezione di senso per la critica del presente» porta Tronti a privilegiare, a scegliere, una tradizione appunto molto circoscritta nello spazio e nel tempo. «Metterei i pesanti e fondanti anni trenta contro i leggeri e futili anni sessanta. Per superare i primi c’è voluta la seconda guerra mondiale. Per dimenticare i secondi è bastata una Trilateral Commission», sorvolando in realtà su guerre di liberazione e guerriglie, colpi di stato, conquiste decisive di libertà e di giustizia, repressioni spietate e sanguinarie.

Accanto a notazioni sulle quasi si può convenire, come la «necessità di evitare la trappola, italianizzante, ’77 contro ’68: liti di condominio», si leggono però sintesi drastiche e quasi caricaturali di tutta la cultura degli anni Sessanta: «Grosso favore che… i favolosi anni sessanta, libertari, cioè giovanili e femminili, hanno fatto al sistema generalizzato di oppressione liberamente volontaria che ne è seguito… Singole individualità, falsamente eccezionali, e gruppi minoritari, falsamente rivoluzionari, si sono esercitati, riuscendoci in pieno, a rendere ridicolo qualsiasi intento e programma di contestazione dell’ordine attuale».

Tronti pare consapevole in diversi punti del libro delle «dure repliche della storia» che la teoria ha conosciuto. Scrive, ad esempio, che «Marx aveva previsto una proletarizzazione crescente. Abbiamo avuto una borghesizzazione crescente. Non fu un errore scientifico, fu un errore politico». E ancora: «al posto di una lotta centrale di due classi, un conflitto diffuso di interessi tra più attori, spesso in competizione concorrenziale tra loro». Eppure sembra riproporre una «critica della democrazia politica» elaborata in chiave puramente filosofica, e sulla base di antichi presupposti, prescindendo da quella che un tempo si sarebbe detta analisi concreta della situazione concreta.

Difficilmente un indiano o un cinese (ma anche un brasiliano o un argentino) condividerebbero oggi la sensazione di vivere una «storia minore», privilegio malinconico assegnato esclusivamente ai cittadini dell’Occidente e in particolare dell’Europa che ha meticolosamente organizzato il suo suicidio assistito.

La scelta «rossa»
Ma esiste poi davvero una «democrazia reale», uniforme e diffusa, che informa di sé il pianeta, sopprimendo libertà e potenzialità? Ci sarebbe da dubitarne, di fronte all’estrema varietà di modelli politici e costituzionali che le democrazie nella loro storia in divenire stanno vivendo; e lo stesso Tronti elenca per il passato forme e modelli di democrazia costituzionale che favorirono e potenziarono le libertà dei singoli come dei gruppi sociali, dal luminoso modello di Weimar alla stessa esperienza del comunismo italiano, che riuscì a «gestire la storia costituzionale dentro il conflitto sociale, anzi produrre storia costituzionale per riprodurre conflitto sociale». È quanto si sta smantellando nel nostro paese nell’ultimo trentennio, e in forma più precipitosa sotto i colpi del governo più reazionario della storia repubblicana. E qui forse vien da notare che lo spirito libero potrebbe manifestarsi anche nelle aule parlamentari, vincendo antiche discipline interiori ed esteriori.
Rischia di apparire solo estetizzante la dichiarazione, più volte ripetuta, per cui «solo chi è stato comunista nel novecento può vivere oggi fino in fondo la condizione di spirito libero», mentre chi non ha attraversato quella esperienza, «quelli che si sentono sull’onda della storia che avanza, sono come gattini che di notte, abbagliati dai fari, si lasciano investire da una macchina spietata».

1950
Sono affermazioni che sembrano confermare l’assunto per cui la «libertà comunista» gode di innegabile fascino nella speculazione filosofica, quanto di vita stentata sotto il principio di realtà. Contro la democrazia omologante si ergerebbe la libertà comunista, ma anche la libertà cristiana, che si creda o meno («È meglio essere cristiano senza dirlo, che dirlo senza esserlo», come scriveva Ignazio di Antiochia). Sulla scorta di alcune riflessioni di don Giuseppe Dossetti (che tornerebbe utilissimo in realtà anche nella difesa della democrazia costituzionale) si afferma che la «libertà del cristiano è libertà dei moderni, rispetto a quella degli antichi, ma è, nel Moderno, libertà radicale, sovversiva dell’ordine costituito, libertà liberante l’umanità fin qui oppressa».

Concludendo sul tema della tradizione, è molto suggestiva la citazione di Gustav Mahler: «la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri». La scelta della tradizione in realtà non dovrebbe mai essere troppo selettiva, né troppo inclusiva, andrebbe esercitata con senso della storia, non può essere accumulo indifferenziato o invenzione pura e semplice di tradizioni inconsistenti (e neppure antiquariato rivoluzionario).
Ma oggi, di fronte all’ammasso di rovine da cui forse anche l’angelo della storia con le ali impigliate ritrarrebbe lo sguardo, c’è da chiedersi quale mantice potentissimo occorrerebbe per ravvivare quel fuoco. Oppure se non sia cosa più saggia proporsi di accendere un fuoco nuovo, aggiungendo al legno residuo anche legname diverso.