In una poesia di Paul Éluard che nel dopoguerra gli aveva annunciato Parigi nella sua ritrovata libertà, Mario Dondero aveva letto i volti che sanno riassumere tutti i nomi del mondo. Era anche il volto di Mario, dove a un sorriso irresistibile si associava sempre un guizzo di intesa, una offerta naturale di fraternità. Gli esseri umani, senza ulteriori né possibili aggettivi, gli erano complici in umanità e l’umanità è stata sul serio l’unico mestiere di chi pure oggi è giustamente celebrato come uno dei grandi fotografi del secolo, un mestiere scelto come il tramite più naturale all’innata curiosità per le forme e i gesti della vita. Fotografare per lui era testimoniare, era una attenzione il cui limite consisteva nel rispetto dell’altro, una passione cui dava forma l’innato pudore. Infatti lo stile di Mario era humanitas, la Leica il suo sismografo itinerante. Non sottovalutava la tecnica ma temeva la posa alla stregua di un falso d’autore, paventava l’estetica fine a se stessa che è tipica dell’artificio. Robert Capa era il suo modello esclusivo, fotografo ad altezza d’uomo, e infatti preferiva definirsi fotogiornalista come i compagni di via, su tutti Ugo Mulas, e sentiva fraterni i grandi scrittori civili, Kapuscinski o i nostri Corrano Stajano e Ermanno Rea.

Coglieva paradossalmente la costitutiva imperfezione degli esseri umani come la loro vera impronta digitale, la più poetica, struggente, e per questo motivo non si è mai nemmeno posto il problema di una gerarchia dei volti e delle occasioni fotografate. La sua epica è stata l’esistenza nuda, una vicenda di affetti, di amore, di amicizia, di lotte per gli ideali di giustizia e libertà, né è un mistero che fra tutte le sue foto preferisse la Marianne con il berretto frigio in Place de la République. Gli sguardi incontrati durante una vicenda fervida e longeva, se mai ce ne fu un’altra, ci vengono incontro dalle foto, il cipiglio rapace di Beckett, la mitezza di Pasolini e di sua madre Susanna, l’anonimo ragazzo di Accettura che scala un palo della luce e però sembra ascendere alla luna di una sua umanissima utopia.

Quei volti non si perdono mai nemmeno tra la folla perché Mario ha saputo ritrarre le masse senza nulla concedere alla retorica o agli aloni dell’effetto spettacolare: sono ancora uomini che stanno insieme, che si parlano, dibattono e lottano come gli operai a Mirafiori, gli studenti alla Sorbona ’68 mentre parla Marcuse, i partigiani di Algeria, i contadini poverissimi di Biafra o Vietnam, i soldati e i caduti delle guerre trionfalmente redivive nel secolo nuovo. Sono forse milioni di scatti, tessere di un cosmo fotografico che Susan Sontag riteneva il solo possibile archivio della umana mortalità.
Potrà mai esistere un sito che conservi tutta quanta l’opera di Mario? Se lo chiede chi intanto con tenacia affettuosa se ne sta occupando, sua figlia Elisa a Parigi, la sua compagna Laura Strappa, la Fototeca di Altidona curata da Giuseppe Buondonno, lo scrittore Angelo Ferracuti, fratello di mille avventure, i fotografi e i cineasti di Fermo (Ennio Brilli, Diego Marzoni, Umberto Bufalini, Marco Cruciani) vicini a lui fino all’ultimo e la vasta comunità degli amici verso cui questo nostro indimenticabile maestro era sempre prodigo di doni, di foto magicamente redivive dai cassetti di vicolo Zara. Il tempo farà sempre più ricco l’archivio di Mario ma nessuno è probabile riuscirà ad esaurirlo, perché tutti i nomi del mondo già esistono nel volto di una sua sola foto.