Concepite per ridurre il crescente iato tra ceto politico e paese reale; assurte addirittura a «mito fondante» del centro-sinistra nei primi anni Duemila, non c’è ormai tornata nella quale le primarie non producano un effetto contrario a quello desiderato. Scandali e compravendite di voti danno addirittura luogo alla ripulsa dei responsi delle urne. Un effetto boomerang che si ritorce con straordinaria continuità contro gli stessi promotori.

Si rivela così uno stretto parallelismo con la torsione maggioritaria che il nostro sistema politico ha subito nell’ultimo ventennio, e del quale la selezione dei gruppi dirigenti attraverso le primarie è stato presentato come un complemento necessario, e non a caso teorizzato dagli stessi promotori dei referendum dei primi anni Novanta. Se le leggi maggioritarie erano state concepite come uno shock esterno chiamato a dare una scossa ad un sistema politico anchilosato ed incapace di riformarsi e di sfuggire all’esasperato trasformismo del pentapartito – un attendamento cosacco in cui si era rifugiato il ceto politico conservatore per sopravvivere alla crisi della Repubblica – i parlamenti e le Assemblee locali frutto della nuova stagione si sono presto rivelati ancor più sordi a quanto si muoveva nella realtà del Paese. La tanto invocata «stabilità», il tanto invocato «rinnovamento», lo strombazzato «federalismo», fatti camminare sulle gambe di un notabilato locale vorace e democraticamente impermeabile, si sono risolti nell’antichissimo strumento accentratore del commissariamento prefettizio.

Il maggioritario ha favorito sì l’alternanza, ma all’interno del recinto concluso delle élites economiche e finanziarie, che hanno dettato l’agenda di un bipolarismo risoltosi in un partito unico di fatto. Mentre nella società consorterie e notabilati tradizionali hanno continuato ad esercitare, più e meglio che ai tempi della vituperata partitocrazia, la propria funzione di interdizione. Nel mirino di una stampa interessata sono finiti però i corpi intermedi chiamati a vivificare la democrazia – il sindacato su tutti -, mentre strutture parallele democraticamente irresponsabili hanno potuto prosperare indisturbate.

La struttura gerarchizzata del sistema politico si è così potuta sedimentare su di un corpo sociale frantumato in base a logica di appartenenza «tribale», e legittimare attraverso l’esclusione dall’orizzonte del possibile (e del dicibile) del conflitto sociale e dello scontro ideale. Da questo punto di vista, tornando alla questione delle primarie, il ruolo giocato dagli immigrati offre una cartina di tornasole utile ad illustrare l’intero processo. Tra le ironie interessate, e spesso tinte di toni implicitamente razzisti, sui «cinesi» in fila ai gazebo, e la normalizzazione altrettanto interessata di chi presenta il fenomeno come un salutare detonatore di integrazione, la verità sta probabilmente altrove: nell’inserimento cioè, in via subordinata e trasformistica, dei capi delle comunità etniche e delle loro clientele in un gioco politico tutto declinato in verticale, e dal quale sia chirurgicamente esclusa la possibilità che appaiano riflessi interessi sociali contrapposti.

Di fronte a tutto questo, il campo della sinistra in via di ricomposizione ha il dovere – e l’occasione – di fornire ricette alternative. A poco serve la ripulsione antistorica nei confronti della cosiddetta «personalizzazione della politica». Un fenomeno degenerativo ed in gran parte indotto dalla torsione maggioritaria sregolata che è stata inferta al nostro sistema politico, ma che non può mascherare l’esigenza di individuare a tutti i livelli una leadership forte, condivisa e legittimata per il fronte delle forze di alternativa. Un obiettivo che non esclude, e che anzi dovrebbe accompagnare, quello della riconfigurazione dei luoghi collettivi dell’agire politico.

Del resto nella sua storia il movimento operaio e popolare è sempre stato caratterizzato dall’emergere di figure carismatiche. La cui legittimità, tuttavia, tanto a livello internazionale, come nazionale, come anche locale, è stata strettamente legata al conflitto, al suo esserne espressione immediata. Questo vale tanto per gruppi dirigenti affermatisi direttamente tra i ceti popolari, quanto per gruppi dirigenti “esterni” ad essi, ma che con essi avevano affrontato dure prove come l’esilio e la lotta antifascista.

Una stagione passata, si dirà. Eppure esperienze a noi contemporanee ci dicono il contrario. Ci dice il contrario la «presa» del comune di Barcellona da parte delle forze popolari, con alla testa una candidata, Ada Colau, espressione diretta delle lotte contro gli sfratti e contro lo strapotere delle élites finanziarie spagnole e catalane. Ci dice il contrario, a tutt’altra latitudine, la figura di Evo Morales, espressione incarnata del riscatto dei più subalterni tra i subalterni e delle loro aspirazioni. E, tornando alla nostra storia, ci dicono il contrario generazioni di subalterni arrivate, tramite il conflitto, a farsi classe dirigente: il caso su tutti di Giuseppe Di Vittorio.

Il campo della sinistra ha insomma gli strumenti per rifondare in senso democratico le catene di selezione dei gruppi dirigenti. La leadership espressione del conflitto da contrapporre alla leadership espressione del notabilato tradizionale legittimato «a posteriori». Il conflitto come antidoto al trasformismo e come via alla ricostruzione di un sistema politico a rischio di implosione e di derive scopertamente autoritarie.