«Le osterie, illuminate da lampade a gas, eran già aperte. A poco a poco cominciarono ad aprirsi anche le altre botteghe e passò per le strade qualche viandante isolato. Poi vennero gruppi sparpagliati di operai che andavano al lavoro; poi uomini e donne con panieri di pesce sulla testa; carretti tirati da asini, colmi di verdura; carri pieni di bestiame vivo o macellato; lattaie con le loro secchie; una continua processione di gente che era diretta, con varie provviste, verso i sobborghi orientali della città».

In principio fu Dickens. Con le parole di Ejzenstejn è da qui, da Dickens, dal romanzo vittoriano che germogliano le prime inquadrature dell’estetica cinematografica americana. Il brano di Oliver Twist, in cui assistiamo al sorgere del giorno, della luce, dell’operosità umana nei sobborghi londinesi dell’Ottocento, è per il grande regista e intellettuale russo l’embrione del montaggio come verrà poi istituito da colui che ha gettato le basi del linguaggio cinematografico: quel David Wark Griffith di Intolerance.

ADATTAMENTI CULT
Una relazione genetica, che storicamente trova le sue radici nello smisurato amore per lo scrittore inglese di tutti i suoi compatrioti, compresi quelli che partirono, o che già erano da tempo, nel Nuovo Mondo. Ma anche e soprattutto una relazione organica, che riguarda un linguaggio in grado di evocare immagini, a un ritmo crescente, che verrà adottato dal cinema di lì a poco soprattutto attraverso la mediazione di Griffith, e che da allora non lo abbandonerà mai. Il grande cineasta americano è anche il primo a stabilire il modo in cui Dickens verrà riproposto sullo schermo: da un lato, ci sono gli adattamenti dei suoi libri – è del 1909 la versione griffithiana di Il grillo del focolare, parte dei Racconti di Natale e ispiratore del Grillo Parlante di Pinocchio – e dall’altro, si trovano i film di più profonda ispirazione dickensiana, nelle atmosfere, nei personaggi, nelle dinamiche della trama in generale. È ancora un volta Ejzenstejn a ricordare l’occasionale apparizione nei film di Griffith di figure che sembrano uscite da un romanzo dello scrittore inglese: simpatici passanti di una certa età, nobili immagini del dolore incarnate da fragili damigelle vagamente monodimensionali, e così via.

L’adattamento di Dickens per il grande schermo è tradizione lunga e onorata, che conta centinaia di film, con una decisa preferenza per Canto di Natale e Oliver Twist, di cui si contano, negli anni, dozzine di versioni. Per il bicentenario della morte dello scrittore, nel 2012, uscì Grandi speranze di Mike Newell,con Ralph Fiennes nei panni di Magwitch e Helena Bonham Carter in quelli della signorina Havisham. Il romanzo di Dickens non veniva trasposto sul grande schermo dal 1946, anno dell’uscita del film omonimo di David Lean lo stesso che due anni dopo diresse Alec Guinnes nei panni di Fagin, il ricettatore ebreo a capo della banda di ladruncoli a cui si mischia lo sfortunato Oliver Twist, che suscitò cocenti proteste nella comunità ebraica (il film per anni non venne distribuito in America). Nel 2005 nel ruolo di Fagin ci sarà Ben Kingsley, nella versione del romanzo girata da Roman Polanski, a quarant’anni dall’ultima versione cinematografica del grande classico dello scrittore inglese. È del 2009 invece l’ultima versione di Canto di Natale, in 3D, di Robert Zemeckis che, grazie alla computer graphic, mischia animazione e attori in carne e ossa e vede Jim Carrey nei panni di quel paradigma della redenzione che è l’avido Ebenezer Scrooge. Anche se probabilmente il più bell’adattamento del racconto natalizio resta quello, sempre Disney, del 1983, con Paperone nei panni di Scrooge e Topolino in quelli del suo vessato e povero sottoposto Bob Cratchit, in cui il patetismo dickensiano raggiunge il suo apice quando il fantasma dei Natali presenti mostra a Scrooge la povera cena di Cratchit, in cui l’intera famiglia si divide un solo fagiolo.

L’OMAGGIO DI CHARLOT
Proprio questo estremo pathos è il motivo per cui solo i più grandi sono stati in grado di riproporre lo spirito dell’opera di Dickens, che in mano di altri si sbriciolerebbe in melensaggini lacrimevoli. E su tutti, spicca un altro grande inglese, Charlie Chaplin: non un solo riferimento a Dickens è presente nel suo cinema, ma se si pensa alla scena madre del Monello  strappato dalle braccia di Charlot dalla polizia è evidente che siamo di fronte ad un capolavoro di melodramma dickensiano, sempre al cuore dei film dolci e amari del comico. La menzione di Chaplin è dovuta anche perché rende conto di una altrettanto fondamentale aspetto del lavoro di Boz, come i contemporanei chiamavano affettuosamente Dickens: l’ironia e la comicità che, negli anni, non hanno perso un filo del loro smalto.
Ai giorni nostri, il discorso non cambia, e l’amore per Charles Dickens continua ad attraversare intatto molti lavori cinematografici, ma solo alcuni sono all’altezza del confronto.

Commosso, il George Lonegan interpretato da Matt Damon in Hereafter di Clint Eastwood accarezza la sedia su cui sedeva Dickens per scrivere i suoi romanzi, nella Casa Museo di Doughty Street, riaperta nel 2012 dopo un lungo restauro per il bicentenario della nascita dello scrittore. Lonegan conduce una vita sofferente a San Francisco, perché la sua capacità di entrare in contatto con i defunti si è trasformata in una fonte incessante di dolore. Unico sollievo, i romanzi di Dickens letti da Derek Jacobi, che ascolta ogni notte prima di addormentarsi. La fiera del libro di Londra sarà l’occasione per incontrare il suo idolo e visitare la sua casa. Ma Hereafter non omaggia solo lo scrittore nella passione del protagonista: l’intero film ha senso solo se letto in chiave dickensiana, per cui il bambino che assiste alla morte dell’amatissimo gemello – che continua incessantemente a voler contattare nell’aldilà – e i due protagonisti incompresi vanno incontro a una compensazione per il loro dolore e per la loro virtù e a una divina grazia che è diretta emanazione del lavoro del grande inglese: Eastwood gli rende un tributo proprio riproducendone fedelmente lo spirito. E dickensiana è anche l’ambientazione del musical «delittuoso» di Tim Burton, Sweeney Todd, in cui nella londinese Fleet Street le pulsioni represse dell’Inghilterra vittoriana trovano sfogo degli omicidi efferati del barbiere interpretato da Johnny Depp.

Dickens spunta anche dove meno te lo aspetti. La trilogia di Batman di Christopher Nolan, da più parti tacciata di essere reazionaria per la sua controversa rappresentazione delle masse e dello stesso Cavaliere Oscuro, più che in ideologie destrorse trova la sua ispirazione nell’umanesimo, certo conservatore ma non elitario, dello scrittore. Dopo essere stato omaggiato in Batman Begins, nei quartieri poveri di Gotham memori della descrizione di quelli della Londra dickensiana, il romanziere è apertamente citato in Il ritorno del cavaliere oscuro, che istituisce un parallelo tra la rivolta a Gotham e la rivoluzione francese come venne narrata in Le due città, e tra Bruce Wayne e quel Sydney Carton che alla fine si immola per la sua amata nel romanzo di Dickens, offrendosi alla ghigliottina, e le cui ultime parole sono l’elegia funebre che il commissario Gordon dedica all’uomo pipistrello – «it is a far far better thing that I do now than I have ever done. It is a far far better rest that I go to than I have ever known».

L’IMPAZIENZA SERIALE
Ejzenstejn riuscì anche a incontrare un anziano signore inglese che conobbe i tempi in cui Dickens era vivo. Seppe così che le nuove puntate dei suoi romanzi – che uscivano settimanalmente – erano attese con ansia da migliaia e migliaia di lettori. E questa serialità, l’attesa spasmodica del prossimo episodio, ricorderanno forse a qualcuno anche l’esperienza più diffusa dello spettatore contemporaneo, quella con le serie tv, anch’esse quindi imparentate alla lontana con il romanziere inglese e la frenesia per i nuovi capitoli delle avventure dei vari David Copperfield, il signor Pickwick e così via. Il suo pubblico, racconta ancora il regista Ejzenstejn, spesso correva incontro al postino, altri andavano direttamente all’ufficio postale a ritirare la loro copia della rivista su cui uscivano i romanzi di Dickens, incapaci di aspettare oltre. Molti lo leggevano sulla strada del ritorno, mentre chi non aveva ancora la sua copia sbirciava da dietro.

Solo i più onesti e coraggiosi, come li chiama il regista russo, riuscivano frenare l’impazienza, tornare a casa e leggere la nuova puntata insieme alla loro famiglia.