Tangerine, ovvero mandarino, è l’aroma di un deodorante che pende dal retrovisore di un taxi di Los Angeles in cui hanno appena vomitato due clienti ubriachi. È anche il colore in cui è immersa la bellissima, elettrica, fotografia, dell’ultimo elettrico film di Sean Baker, un road movie hollywoodiano ambientato la vigilia di Natale nelle strade fatiscenti dove s’incontrano Highland e Santa Monica Boulevard, accese dalla furia vendicativa della prostituta transessuale Sin-Dee (Kitana Kiki Rodriguez) che, reduce da ventotto giorni di prigione, scopre che il fidanzato protettore, Chester, la tradisce con una donna (o come dice lei «white fish»). Miracolosamente girato con un iPhone 5 dotato di uno speciale adattamento anamorfico da cui risulta un’immagine in scope (dietro alla «macchina» Baker e Radium Cheung), musicato grazie ai contributi di giovani compositori scoperti via SoundCloud, Tangerine è stato presentato al Sundance nella sezione Next, quella che da qualche anno raccoglie il cinema più interessante, slabbrato, provocatorio, che generalmente il concorso non osa.

 

Baker aveva già puntato il suo occhio antropologico/lisergico sugli immigranti di New York (Prince of Broadway, prodotto nel 2010 da Lee Daniels) e sulla strana amicizia tra una ventenne della San Fernando Valley e un’anziana signora (Starlet, del 2012). Combinando screwball classica e documentario (il film è stato scritto e realizzato con la collaborazione dei collaboratori di un centro assistenza per gay, lesbiche e transessuali, del quartiere) questo suo ultimo lavoro è la versione per l’era digitale di un film di John Waters (stesso gusto per l’esorbitante, stesso candore, stesso amore per i personaggi al margine) carburata però di anfetamina – anche se la droga di scelta nel film è il crack. La storia, e la macchina da presa, sono letteralmente trascinati dalle falcate di Sin-Dee –le lunghe gambe avvolte in calze a rete sbrindellate, la bocca di un rosso perfetto, i capelli color rame, uno zainetto in spalla al quale si afferra con forza. Su e giù per marciapiedi sconnessi, dentro e fuori da strip mall decrepite, in pullman e in metropolitana, da un fast food a una soup kitchen, scrollando le informazioni di dosso a chi non vuole dargliele – tra improbabili lucine natalizie che si mescolano ai neon dei negozietti squallidi e all’arancio sempre più caldo del tardo pomeriggio. Sin-Dee è decisa a trovare Chester e la complice nel tradimento.

 

 

Al suo fianco per gran parte di questo zig zag frenetico è l’amica del cuore Alexandra (Mya Taylor), bellissima anche lei, anche se di energia completamente opposta – languida, calma, quasi saggia, e che quella sera ha invitato tutti gli amici al suo concerto, anche se è lei che paga per cantare.
Come in un programma di fuochi d’artificio, al termine di una giornata estenuante per tutti, e buffissima, ma in cui Baker lascia intravedere, come piccoli flash- squarci di pericolo, miseria, violenza e le durezze della vita in quelle strade- Sin-Dee, Alexandra, Chester, l’amante prostituta bianca che sembra Naomi Watts, il taxista armeno Razmik, sua suocera e sua moglie si ritrovano per uno showdown finale in un negozietto di Donuts, dove la povera commessa cinese minaccia invano di chiamare la polizia.

 

Sulla costa opposta, a New York, è un Natale di segno, temperatura, e colori completamente diverso quello di Christmas, Again, interessante esordio di Charles Poekel, già quest’estate al festival di Locarno e prossimamente a New Directors/New Films, malinconico ritratto di un venditore di alberi di Natale nelle cui giornate depresse appare e scompare una misteriosa ragazza. Quasi una favola in grana grossa, forte dei dettagli (la fretta e la bruschezza della gente, la neve sporca, il freddo, i pini ammucchiati uno contro l’altro, l’idea di un mondo ricco e inaccessibile, a pochi isolati di distanza..) del periodo natalizio a New York, Christmas, Again è stato girato in 16 millimetri dal poetico, elegante, direttore della fotografia Sean Price Williams. Al montaggio, e produttore, Robert Greene il regista di Actress.

 

Attesissimo, sempre in Next, e come Christmas, Again proveniente da una gruppo di lavoro noto e stimato della scena indipendente di New York, James White è l’esordio alla regia di Josh Mond, cofondatore insieme a Sean Durkin (Martha Marcy May Marlene) e Antonio Campos (Simon Killer) della Borderline Films. Il titolo viene dal nome del personaggio sul cui punto di vista, spesso in primissimi piani del volto e dei gesti, è interamente costruito il film, e che è interpretato con dolorosa intensità da Christopher Abbott (per chi vede Girls è il fidanzato bistrattato di Marnie). Ventiequalcosa, buono d’animo e istintivamente protettivo, ma sbandato e indeciso su cosa fare di sé, James (sopra)vvive sul divano, e grazie al conto in banca, di sua madre (Cynthia Nixon) tra un festino notturno e l’altro. La vacanza messicana dopo la quale ha promesso che metterà la testa a posto e si dedicherà finalmente alla scrittura (è cresciuto in una casa piena di libri sull’Upper West Side), viene interrotta improvvisamente quando, da New York, arriva la notizia che il cancro della mamma è riaffiorato, e che lei sta per intraprendere un pesante ciclo di chemio. Girato con la macchina a mano sempre più stretta sui dettagli quotidiani della malattia James White (che spesso patisce di una sceneggiatura troppo scritta e di dialoghi faticosi) è allo stesso tempo, la tenera fotografia di una love story e quella di un’educazione forzata e difficilissima.