Il momento più emozionante del Palmarés è stato quando sul palco è salito Jean Pierre Leud a cui il festival ha consegnato la Palma d’onore. «Sono nato qui» ha detto l’attore, magnifico corpo del cinema mondiale sempre nouvelle vague fino a La Morte di Luigi XIV il film di Albert Serra in cui da vita a Re Sole morente, uno dei più belli visti sulla Croisette e uno di quei pochi titoli che come stelle filanti riescono a accendere l’immaginario – ciò che lo scorso anno è accaduto con Le mille e una notte di Miguel Gomes.

 

 

Che festival è stato questo numero 69, nella Francia in «etat d’urgence», lo stato di emergenza deciso dopo gli attentati terroristici a Parigi lo scorso novembre, che ha messo la cittadina sulla Costa Azzurra sotto sorveglianza speciale con infiniti occhi di telecamere e un apparato di sicurezza più che esibito? A dispetto delle molte Palme che ogni giorno apparivano tra i giudizi dei critici francesi e internazionali sulle riviste specializzate, il concorso ha inseguito un’idea del cinema tranquillizzante anche nei suoi apparenti «detour».

 

 

La maggior parte dei film visti questi giorni è totalmente millimetrata, in equilibrio tra la riconoscibilità dei loro registi e una forma capace di rispondere alle aspettative dello spettatore – emotivamente e stilisticamente. Le Palme hanno seguito lo stesso schema.
Difatti con l’eccezione dello spiazzante Personal Shopper di Olivier Assayas che sembrava nella serata completante fuori posto, gli altri film scelti dalla giuria ( Arnaud Desplechin, Kirsten Dunst, Valeria Golino, Mads Mikkelsen, Laszlo Nemes,

 

 

Vanessa Paradis, Katayoon Shahabi, Donald Sutherland) con presidente George Miller rispondono interamente a una stessa «formula» di cinema. Scrittura, messa in scena, radicalità che coincide fondamentalmente con un’idea vetusta (se non reazionaria) di cinema politico e/o con il virtuosismo della macchina da presa, collezione di luoghi emozionali e fisici ben riconoscibili. Una linea che contrasta tra l’altro apertamente con l’ardire da cinema astratto del film che George Miller ha portato a Cannes l’anno scorso, Mad Max: Fury Road.

 

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In questo schema non c’è posto per film come Toni Erdmann il successo del festival firmato Mare Aden in cui il disagio del nostro tempo affiora nel grottesco, spiazzando la scrittura, e in una logica del «più forte» di assoluta disperazione – con la scena cult del festival dell’improvvisato naked party.
O come Rester vertical di Alain Guiraudie, con la sua incertezza fragile dello stare al mondo, e ancora come  Aquarius di Kleber Mendonça Filho, con la sua la resistenza del desiderio.

 

 

Meglio cercare rassicurazioni. L’idea di «cinema politico» di Ken Loach, con I, Daniel Blake alla sua seconda Palma (dopo Il vento che accarezza l’erba) che nel racconto del suo protagonista, il Daniel Blake del titolo, un proletario sessantenne «improduttivo» perché malato (dunque condannato alla marginalità), mette a fuoco il collasso del welfare britannico e più in genere mondiale, e quella miseria che è nel cuore dell’Europa in modo chiaro, netto, senza imporre (sì imporre) allo spettatore alcun dubbio e soprattutto alcuna necessità di mettersi in discussione. Si guarda, ci si indigna, si torna a casa come dopo una catarsi che fa sentire meglio.

 

 

 

Ma è questo affrontare il contemporaneo?
O è il giustizialismo di Cristian Mungiu (Bacalaureat miglior regia ex-aequo con Assayas)) nel suo ritratto «tutti ladri, tutti corrotti» della società rumena in un crescendo costruito con determinazione sadica per mettere in ginocchio il suo protagonista? O la condanna di Le Client di Ashgar Farhadi (premiato per la sceneggiatura e il migliore attore, Shabab Hosseini), in cui il regista iraniano Oscar nel 2012 per Una separazione compone una nuovo capitolo sul tema colpa/vendetta che ritorna in ognuno dei suoi film. La metafora del marito che vuole vendicare un’aggressione compiuta contro la moglie dovrebbe riguardare l’oppressione che domina nella società iraniana ma sembra invece quasi assecondarne la continuità con un machismo che si impone nei rapporti uomo e donna anche in un’ambiente borghese, e soprattutto in una visione estremamente moralista, governata dalla punizione.

 

 

Un cinema di scrittura si diceva, che riempie tutti i vuoti, che non lascia spazi per immaginare, che non solleva inquietudini – come quelle abissali, aperte invece dal grandissimo ritorno di Paul Verhoeven, Elle, che meritava un premio, insieme alla sua protagonista, Isabelle Huppert, assai meno conformista della Jaclyn Jose di Ma’Rosa di Brillante Mendoza. E un cinema di scrittura antitetico alla profondità della straordinaria metrica quotidiana di Jim Jarmush (Paterson) -insieme ad Assayas, un altro dei pochi film veramente liberi, innovativi e di respiro, visti in concorso quest’anno

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Azione/reazione, anche quando l’apparenza non è lineare come nell’isterico balletto familiare il compiaciuto (di se stesso) Xavier Dolan, nella canicula della cucina dove prende vita la sua urlatissima fine del mondo (Juste la fin du monde, Grand Prix della giuria) Grande maestria (purtroppo non quella del triangolo infernale di Park Chan Wook) e virtuosismo registico, che deve piacere parecchio a questo festival, basti pensare alla passione per Paolo Sorrentino e – quest’anno – dall’illusione che i toni sopra le righe o la banale frenesia pseudo pop che caratterizza l’America vista dall’inglese Andrea Arnold (American Honey)possano garantire l’emozione di un fotogramma.