L’estate è anche il tempo in cui migliaia di studenti neodiplomati sono chiamati a fare una delle scelte più importanti e delicate della loro vita, cioè individuare il corso di laurea al quale iscriversi. In Italia lo scenario generale in cui le nuove leve di giovani sono costrette a muoversi è dei più foschi, con tassi di disoccupazione giovanile da capogiro e un mercato del lavoro asfittico che tende ad accentuare le differenze di classe già esistenti.

Non è un caso dunque se da diversi anni si assiste a un calo delle immatricolazioni universitarie. Chi ha la possibilità di sostenere il peso economico di un’istruzione sempre più costosa, deve riuscire prima di tutto a orientarsi nella scelta del percorso di studi, selezionando al contempo la città dove intraprenderlo. Per riuscire in una simile impresa è meglio fidarsi soprattutto dell’intuito, del buon senso e di qualche consiglio mirato, prendendo con il dovuto spirito critico i dati che circolano in queste settimane sulla qualità dei diversi atenei italiani.

Le classifiche di questo genere, come quella pubblicata dal Censis o quella da poco uscita sul Sole 24 Ore, lasciano come al solito molte perplessità sul loro significato e sulla loro utilità. Non si tratta beninteso di un problema di veridicità dei dati. Come diceva un grande storico polacco, «è assai raro che gli statistici falsifichino le cifre; tuttavia, attuando raggruppamenti arbitrari, essi possono, se vogliono, dimostrare tesi anche opposte con gli stessi dati».

Spesso i punteggi complessivi assegnati ai singoli atenei o alle singole scuole non hanno nulla a che fare con l’effettiva qualità della didattica, l’aspetto che più di tutti dovrebbe interessare i futuri studenti. A volte queste stime finiscono per considerare virtuosi gli atenei in grado di attrarre più finanziamenti privati, non necessariamente su ricerche di qualità, o quelli dove vi sono più iscrizioni, le quali magari possono semplicemente derivare da una minore difficoltà degli esami. Come sono compilate dunque queste statistiche? Quali criteri entrano nella valutazione degli atenei? Non sempre è chiaro. Su roars.it, il sito web che si occupa di analizzare in modo critico il mondo della ricerca scientifica e le questioni accademiche, si possono leggere interessanti valutazioni al riguardo.

Di questi tempi c’è poi un ulteriore elemento per prendere le giuste distanze dalle graduatorie sulle università. L’idea di poter dare un punteggio a ogni ateneo e di subordinare a questa valutazione il valore del titolo di studio colà conseguito è stata alla base di un emendamento approvato dal governo nell’ambito della riforma della pubblica amministrazione, poi fortunatamente cancellato nel passaggio del ddl Madia al Senato. L’aberrante strategia a cui questo emendamento rispondeva è del tutto coerente con il nuovo riformismo destrorso di marca renziana. Quest’ultimo prevede di applicare una sorta di logica “darwiniana” al sistema universitario, in cui solo gli atenei considerati virtuosi sarebbero degni di sopravvivere, mentre tutti gli altri sarebbero destinati a essere sempre meno gettonati, e quindi di fatto a soccombere.

L’idea di poter classificare gli atenei italiani sulla base di criteri semplicistici, arbitrari e spesso oscuri è dunque almeno in parte strumentale a questo disegno. Invece di investire sull’università, colmando le distanze eventualmente esistenti fra i diversi atenei, si preferisce marcare la differenza fra atenei di serie A e di serie B, accentuando le divergenze già esistenti e favorendo una svolta in senso censitario del sistema di formazione, sul modello statunitense. Questa strategia, se portata a compimento, avrebbe come logica conseguenza un ulteriore aggravamento della condizione del sud Italia, dove inevitabilmente, per ragioni di carattere storico, si concentrano le situazioni oggettivamente meno virtuose. Prepariamoci dunque tutti quanti a un’adeguata resistenza alla “buona università” che si prospetta per il dopo estate: dato lo scempio a cui abbiamo sin qui assistito sulla scuola, si tratterà con ogni probabilità del sequel di un pessimo film già visto.