Ho dedicato la vita intera allo studio dell’antichità greco-romana e per questo motivo lungo il mio percorso professionale ho incontrato continuamente Palmira. Con la sua distruzione per mano dell’Isis, una parte significativa della nostra cultura e l’oggetto dei miei studi sono stati spazzati via». Le prime righe di Palmira Storia di un tesoro in pericolo (Garzanti, pp. 104, euro 15,00, traduzione di Emanuele Lana) sono già una dichiarazione d’intenti. L’autore, il grande storico francese Paul Veyne, noto in Italia soprattutto per il best-seller sociologico Il pane e il circo: tiene a precisare di aver dismesso i panni del «vecchio professore erudito» per rivolgersi a un pubblico più vasto. Ma mentre in Palmyre. L’irremplaçable trésor (Albin Michel), Veyne dice di ambire al lettore honnête homme, espressione che denota una persona di alto valore morale, nell’edizione italiana si fa riferimento a un destinatario colto. Eppure, in quella che potrebbe sembrare una nuance è riposta la chiave di lettura del volume. Il target, infatti, consente di smorzare le critiche che in Francia hanno liquidato il testo di Veyne come eccessivamente semplicistico, un mero evento commerciale sull’onda dell’emotività.
Linguaggio un po’ troppo cool
Non vi è dubbio, al contrario, che a muovere l’autore sia da una parte lo sconcerto di fronte alla violenza dello Stato Islamico, dall’altra il desiderio di rendere un sincero omaggio alla Sposa del deserto, ripercorrendo per sommi capi storia e peculiarità di un sito archeologico straordinario. Ciò che invece gli si potrebbe rimproverare è l’abuso di un linguaggio cool, apparentemente di facile comprensione ma suscettibile di creare ambiguità nei lettori meno avveduti. Fin dal primo capitolo si parla di Palmira come di una «repubblica mercantile», dove qualunque straniero di passaggio – fosse greco o italiano (in verità, se non romano, sarebbe opportuno dire italico) – avrebbe potuto provare una sensazione di spaesamento per l’originalità dei costumi. Malgrado Veyne punti a rendere il mondo antico prossimo all’epoca in cui viviamo, definire Palmira una repubblica mercantile è storicamente scorretto, in quanto la città carovaniera non assunse mai una simile forma giuridica e neppure lontanamente può esser paragonata a una repubblica marinara quale fu, nel Medioevo, Venezia. Quello di Veyne è dunque uno stile azzardato, tanto più che egli è capace di trasportarci nelle atmosfere dell’Oasi con una narrazione immaginifica dal ritmo scorrevole. L’opulenza di Palmira si dispiega insomma fra le righe senza che sia necessario chiamare in causa un capitalismo ante litteram. Non furono infatti gli investimenti degli «operatori commerciali» palmireni a decretare la fortuna della città, quanto l’abilità dei suoi abitanti ad attraversare il deserto e scortare le carovane.
L’universo dipinto da Veyne affascina proprio perché ammantato dalla patina di un tempo che non ha nulla in comune col nostro e che, come uno scrigno, ha conservato frammenti di viaggi oltre l’Eufrate. Basta osservare i superbi ritratti a mezzo busto provenienti dalle necropoli di Palmira per ritrovare, nella rappresentazione degli abiti e dei gioielli che fecero sognare Baudelaire, la traccia delle vie solcate dai dromedari. Residui di filati e sete cinesi sono stati inoltre riscontrati in alcuni defunti sottoposti a mummificazione. Spezie e stoffe venivano scambiate alla foce dell’Indo con vino e vetri siriani. Le merci erano destinate all’esportazione verso Occidente e Roma, che nel II secolo d.C. annette Palmira all’Impero attratta dalle sue ricchezze, instaura una dogana al di fuori delle mura, traendo profitto dal commercio carovaniero.
È proprio alla Palmira di età romana, le cui maestose rovine si presentavano agli occhi dei turisti sino allo scoppio della guerra civile siriana, che Veyne dedica il maggiore spazio. Il suo sforzo è di mostrare l’identità ibrida della Sposa del deserto, la quale si espresse nell’arte, nell’architettura, nella vita religiosa e nei costumi: un patchwork, scrive l’autore, il quale si chiede se gli eroi dell’epopea palmirena, Odenato e Zenobia, si considerassero orientali o membri dell’élite imperiale. Del secondo personaggio, figura tragica per i pittori dell’Ottocento e icona del nazionalismo siriano negli anni settanta del ventesimo secolo, si traccia qui un profilo forse meno romantico, dal quale emerge nondimeno il carattere di ferro di una «regina» determinata ad assumere il comando dell’Impero col figlio Vaballato. Fra le versioni sulla sorte di Zenobia, di cui la più spettacolare la vorrebbe imprigionata in catene d’oro nel trionfo di Aureliano, Veyne sceglie la meno prosaica, lasciandola morire sulla nave della disfatta. Il popolo di Palmira parlava aramaico, lingua che rimase in uso negli atti ufficiali. L’aristocrazia apparteneva però a una società ellenizzata e i figli delle famiglie notabili, come mostra la scoperta della tavoletta di uno scolaro, imparavano il greco ricopiando le favole di Esopo.
Ellenizzarsi, modernizzarsi
Ellenizzarsi, secondo Veyne, significava portare a compimento la propria natura, «modernizzarsi». Anche il decoro della città – di fatto una polis – può essere definito di tipo greco. L’autore ricorda il verso di Hölderlin, «queste strade di Palmira, selve di colonne nell’immensa piana deserta», e cede ancora al vezzo di prendere per mano il lettore spiegandogli che il santuario di Bêl era la San Marco di «questo porto nel deserto». Nella descrizione del tempio, consacrato nel 32 d.C. e raso al suolo dagli uomini del Califfo nero nell’agosto 2015, Veyne non risparmia paragoni con le moschee di Istanbul, coinvolgendoci in quello che alla fine diviene quasi un gioco di sovrapposizioni oniriche. A Palmira coesistevano divinità locali e allogene ma Bêl, il dio primigenio dell’Oasi poi identificato con Zeus, dominava un Pantheon variegato. Ciò che del monumento che lo ospitava assieme a Yarhibôl (sole) e Aglibôl (luna) non vedremo più, Veyne lo restituisce partendo dal caos, ovvero da quando nella Siria arcaica il Signore Bêl aveva sconfitto un mostro marino. Quel bassorilievo giace ora in macerie.
Il tempio di Baalshamin
È però sulla scomparsa del tempio di Baalshamin, Signore del cielo e della tempesta, che l’autore concentra la sua attenzione. Forse perché il primo a essere esploso sotto i colpi dei jihadisti, Veyne s’interroga sulle ragioni che hanno portato alla sua distruzione. Rifuggendo la teoria dell’odio per gli idoli pagani, l’autore è persuaso che sia piuttosto a una venerazione, tutta occidentale, per i monumenti storici che bisogna guardare. Gli islamisti, dunque, vogliono rivendicare una cultura diversa dalla nostra e per questo si sono accaniti su molti siti archeologici del Vicino Oriente. Non si tratta di invidia, sostiene Veyne, ma dell’affermazione, davanti al mondo e a se stessi, della propria individualità. La cultura dell’Occidente continuerebbe infatti a espandersi ovunque, anche nell’immensa Cina comunista. «Ovunque nel mondo le ragazze studiano, le donne guidano la macchina», dice Veyne, rivelando un’inaspettata naïveté. È sufficiente citare i casi dell’Afghanistan e dell’Arabia Saudita per smentirlo.
Eppure, l’autore sa bene che l’Oriente che incantò Malraux esercita anch’esso un potere sull’Occidente. Differente, certo. Più psicomagico che politico. L’ostinazione a riconoscere una sola cultura ha sancito l’odierna condanna di Palmira. L’invito di Veyne è a non cadere anche noi nella medesima trappola dell’estremismo islamico. Sarebbe una condanna per la vita.