Per esempio «Viterbo che si stende in parte in groppa a un colle – annota Montaigne nel 1580 – è una bella città della grandezza di Senlis. Vi notammo molte belle dimore, gran folla di artigiani, belle strade d’aspetto gradevole, e in tre diversi luoghi fontane bellissime». Montaigne, qui, conosce Viterbo per analogia: uno dei modi tipici del viaggiatore; qualche anno dopo un altro viaggiatore, Fynes Moryson, pur preso dai brandelli di membra di ladroni appesi agli alberi dei boschi che circondano la città, non rinuncia all’elogio delle fontane. I briganti, non più morti, avranno un’eco che rimarrà per il tramite di Stendhal: «Tutti parlavano con ammirazione di un viaggiatore di commercio che ieri, attraversando la macchia di Viterbo, ha ucciso due briganti e ne ha preso prigioniero un altro». Fontane e briganti, nei secoli dei secoli, ma anche il Bulicame, «un laghetto d’acqua solforosa a un quarto di lega dai Bagni di Viterbo» (Lalande), come se ogni viaggiatore aggiungesse un pezzo al mosaico con cui la città diventa immagine e si tramanda. Col rammarico di chi non riesce a fermarsi come vorrebbe, e già, a memoria, sa che cosa sta perdendo; per esempio Viollet-le-Duc: «Viterbo: graziosa fontana, graziosi palazzi con gran numero di decorazioni curiose; bella chiesa gotica; purtroppo tiriamo dritti». Viterbo, come le belle città d’Italia, risente nella percezione del mutare dei gusti, e anzi ne accompagna il mutamento. Nel 1911 l’architetto britannico Olave M. Potter, in compagnia del grafico giapponese Yoshio Markino descrive e disegna la città a partire proprio da quello che intanto è diventato un luogo comune: «Il vanto degli antichi cronisti di Viterbo è la “Città delle belle fontane e delle belle donne”, e in effetti lo splendore delle fontane è tuttora proverbiale», ma intanto un’altra epoca è stata riscoperta; e infatti: «Somma gloria di Viterbo è il pittoresco caseggiato medievale» e forse un brivido verrebbe dal «passare da Piazza della Morte a via di san Pellegrino con le grigie case del XIII secolo accalcate a destra e a sinistra».
Un genere involontario
Come Viterbo, sguardi successivi, stratificazioni varie di varie forme di conoscenza, epoche diverse del gusto e del sentire accompagnano negli sguardi dei viaggiatori il formarsi delle città italiane. Scrittori illustri, dilettanti di sensazioni e di belle lettere, cronisti, viaggiatori occasionali, commercianti, precursori dei turisti, studiosi di discipline di ogni tipo, semplici curiosi hanno dato il resoconto dello sguardo in atto. Ne è nato un mondo letterario se non un vero e proprio genere costituitosi quasi involontariamente, o per una necessità diversa da quella propriamente letteraria.
Grande conoscitore di viaggiatori e di letteratura odeporica, da anni Attilio Brilli ha dedicato all’arte di viaggiare una serie di libri che ne indagano i vari aspetti: dal commercio al pellegrinaggio, dall’esplorazione al turismo per diletto o per studio. Ora è la volta di una summa da un’angolazione particolare. Ovvero, quasi, i viaggiatori dal punto di vista delle città, ovvero le città secondo gli sguardi che vi si posarono sopra nel corso degli anni e che furono fermati in scrittura. Ed è, con anche molte illustrazioni di viaggiatori che dipinsero o disegnarono invece che scrivere, Il grande racconto delle città italiane (il Mulino «Beaux livres», pp. 624, € 50,00), un itinerario letterario (e non solo) attraverso le vedute scomparse delle città metropolitane (Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Palermo); o la rassegna di incantevoli geometrie euclidee o frattali (Verona, Siena, Pienza, Arezzo, Ravenna, Perugia, Terni, Viterbo, Lecce); il vario fascino delle città collinari (San Gimignano, Cortona, Assisi, Orvieto, Spoleto, Gubbio, Urbino) e marine (Venezia, Genova, Ancona, Siracusa); infine, due città sepolte, Ercolano e Cerveteri.
Il Cigno di Baudelaire
Il risvolto di copertina accoglie il lettore con una citazione tra le più struggenti di quante mai ne siano state dedicate alla mutevole forma delle città, allo spazio-tempo che comporta nostalgia, senso del trascorrere delle cose, interrogazione sull’abitare il mondo. È la citazione da Le Cygne di Baudelaire: una città cambia più rapidamente del cuore di un uomo. Ciò spiega perché siano così diversi gli sguardi che, nel corso del tempo, si sono posati sui medesimi luoghi. Ma, fatalmente, il nome di Baudelaire attira il nome di Walter Benjamin, e non soltanto per tutte le sue carte dedicate a Parigi, ma per la sua meditazione sul rapporto tra sguardo e città messa in evidenza poi da Peter Szondi che coglieva in una pagina del 1929 il nascere dell’interesse di Benjamin per la diversità di sguardo tra colui che in una città ha vissuto la propria infanzia e colui che in quella città si trova a passare per pochi giorni della propria vita (Mario Soldati, con forse una certa dose di provocazione, diceva che per poter dire di conoscere una città bisogna averci dormito almeno una notte). Benjamin osservava che lo stimolo epidermico, l’esotico, il pittoresco prendono solo lo straniero; mentre l’ispirazione di chi è nato in una città si sposta nel tempo invece che nello spazio. Ora, mi sembra che si possa dire che l’organizzazione del volume di Brilli consente di guardare le città come se appunto ci si muovesse nel tempo e insieme nello spazio: come se, ancora, l’accumulo durante il tempo di tanti sguardi contribuisse a farci sentire nati in quella città, senza trascurarne alcune caratteristiche di colore o pittoresche, di mera superficie o stupefacenti per il pittoresco, ma lasciandole come strumentali, quasi fossero un modo come un altro per accedere al senso di quelle che furono comunità abitate, nello svolgersi dei momenti, da uomini diversi ma che mai hanno smarrito le loro caratteristiche (in fondo così sono le nazioni e così è il mondo): tutti i cambiamenti le hanno confermate identiche a se stesse.
Goethe, James, Borchardt La rivelazione al mondo delle città italiane è stata opera «di personaggi errabondi per i quali il viaggio è un’avventura intellettuale, una ricerca appassionata, un racconto in cui centri urbani e paesaggi attendono l’avvento di personaggi fittizi che sappiano tracciarvi i loro percorsi, tesservi le loro trame ed elevarle al rango di mete»: i Goethe padre e figlio, Symonds, Henry James, Edith Wharton, Alous Huxley, e Taine, e Borchardt e tanti altri che «assorbono nei loro scritti le caratteristiche e le suggestioni di generi letterari diversi». L’uso che se ne può fare è differenziato secondo temperamento: emulazione, analogia, scarto. Comunque si tratta di una letteratura delle cose, viste o percepite; narrate con straniamento o dislocazione o familiarità. Ma le città italiane, «icone di civiltà», spingono anche verso il fantasticare e verso la finzione, e il viaggiatore vero, forse, colui che «prevede», è il flâneur, ovvero chi gira senza meta per le strade e i luoghi, scopre ciò che è nascosto e respira con ciò che trova e osserva, attraversa i tempi e gli strati successivi della città, vede il passato nel presente e viceversa. Il viaggiatore disposto a stupirsi, commuoversi, intendere, preservare e disposto perfino a farsi assalire dallo «smarrimento estasiato». Almeno fino all’avvento del turismo di massa, alla consumazione tocca e fuggi dei giri ingordi disposti a veder nulla. Le città belle sono anche fragili, si sfaldano: i viaggiatori dei secoli passati aiutano a serbare memoria di ciò che furono fino alla vigilia del degrado; senza un metodo preciso, perché ogni città richiede un avvicinamento secondo propri principi: ognuna è una curiosa anomalia, di specifica bellezza.