Come un Dottor Frankenstein dell’immaginario artistico, Hideo Kojima ha dato vita ad un meraviglioso mostro, ricucendo con magistrale talento rapsodico le membra e gli organi dei corpi morti di un cinema estinto in una presunta, fittizia obsolescenza e animandole con l’elettricità fulminea dell’interattività videoludica. Attraverso le sue opere sperimentali e rivoluzionarie risuonano i segnali ancora vitali delle visioni di Akira Kurosawa, Samuel Fuller, Robert Aldrich, Orson Welles e Sam Penkipah in contrappunto con quelle anticipatorie, sempre inattuali e quindi universali, perché oltre il nostro tempo, dei quasi-contemporanei John Carpenter, Shinya Tsukamoto e Paul Verhoeven. Non è un vuoto citazionismo cinefilo, quello che si percepisce tra le decine di ore dei videogiochi immensi di Kojima, ma del lavoro amorevole e colto di un interprete che, come fece Molière, prende il suo bene ovunque possa trovarlo per edificare l’identità di un’arte nuova, unica e personale, compendiaria di decenni di storia, critica con il presente e proiettata verso il futuro.

L’epopea ha inizio

Non è un caso che Le Parapluie de Cherbourg sia uno dei film più amati da Kojima, nato a Tokyo il 24 agosto del 1963, orfano di padre a dieci anni. C’è una corrispondenza tra il precoce sogno artistico, la voglia di inventare e di mettersi alla prova già durante la pre-adolescenza, tra il maestro del videogioco e Jaques Demi. Se il regista di Lola produsse e diresse, come raccontato da Agnes Varda nel suo Garage Demi, rivelatori film amatoriali durante la sua tarda infanzia, Kojima iniziò a scrivere racconti dalla lunghezza smisurata e successivamente a girare in Video8. La volontà di essere un autore, di libri o di cinema, fu sempre spronata da una fede incrollabile e dalla consapevolezza del proprio talento, ma solo nei primi anni ’80 Kojima conobbe le potenzialità del videogioco con l’avvento di Super Mario Bros. E ne fu ammaliato, decidendo che sarebbe diventato un creatore di videogame, non un game-designer, ma un Autore che avrebbe sfruttato ogni sua dote ai fini dell’invenzione di un’opera.

Kojima riuscì quindi, dopo qualche iniziale difficoltà, a farsi assumere da Konami, la storica di Gradius, Contra e, più recententemente di Silent Hill e PES. Nel 1987, Kojima sviluppò il suo primo videogame, così diverso da quelli giapponesi dell’epoca. Si tratta di Metal Gear per MSX2 e NES, un gioco dove l’azione è contenuta e subordinata all’esigenza di restare nascosti. Ostico e grave in maniera inedita, ma ricco di meditazioni politiche, filosofiche e sociali raccontate attraverso un processo narrativo che diventa fondamentale.

La mitologia fanta-storica inventata con questo primo episodio dell’epopea bellica e pacifista di Snake e Big Boss si è conclusa in maniera ciclica e mirabile solo nel 2015 con Metal Gear Solid V Phantom Pain, dimostrando la coesione progettuale già contenuta nell’idea originale di Kojima. La fama stellare, la sua consacrazione a genio del videogioco e non solo, arriverà tuttavia solo successivamente, dopo i virtuosismi letterari delle avventure grafiche Snatcher (1988) e Policenauts (1994) tra le quali colloca Metal Gear 2 Solid Snake.

Metal Gear Solid

Il videogame a cui l’identità di Kojima verrà associata per due decenni, forse per sempre, esce nel 1996 per la prima Playstation di Sony. Si tratta del terzo episodio di Metal Gear e grazie alle potenzialità offerte dall’hardware della console l’autore può finalmente sfogare i molteplici aspetti del suo talento. Se la struttura ludica rivolta verso un’azione che non è mai sfrenata ma meditativa viene filtrata dai precedenti, germinali episodi, qui in questa storia di spionaggio ambientata tra i ghiacci eterni l’artista utilizza le tre dimensioni per realizzare un comparto grafico filmico per contenerla.

Ecco per la prima volta le scene di intermezzo lunghissime, veri e propri segmenti di un cinema potente e raro, che esaltano il ruolo del giocatore amplificando a dismisura l’immedesimazione in una trama che non è solo gioco ma esperienza. Inoltre c’è la volontà dell’autore affinché il videogame non sia solo passatempo e divenga ispiratore di riflessioni sugli orrori del presente e del passato, un pungolo etico che rende problematico il gesto di uccidere anche in un ambito virtuale.

Nel 2001 per la seconda Playstation uscì Metal Gear Solid 2 Sons of Liberty attraverso il quale Kojima dimostrò l’indipendenza dal pubblico e dalle sue aspettative cambiando il protagonista giocabile da Snake al nuovo Raiden, cosa che molti non apprezzarono malgrado il successo mondiale del gioco. Dopo il futuribile secondo episodio Kojima ci trasporta nell’epoca della Guerra

Fredda con il nuovo – fino ad ora il principale tra i suoi tanti capolavori – Metal Gear Solid 3 Snake Eater, per Playstation 2 uscito nel 2005, tra i cui personaggi spiccano indimenticabili caratteri femminili. Il quarto episodio, monumento alla vecchiaia dell’eroe morente nello stile del Pistolero di Don Siegel, arriva su Playstation 3 nel 2008: Metal Gear Solid 4 Guns of the Patriot,in cui la critica alla War Economy assume una dimensione extraludica ancora più incisiva.

Il dolore fantasma e la nuova identità

Ci sono i due capitoli di Zone of Enders per Playstation 2, saga robotica dall’azione frenetica la cui ricchezza cromatica e l’ipercinetica donano un aspetto astratto, informale e visionario che rende la forma secondaria in una magnifica confusione di luci, colori e vettori. E poi lo strano e vampiresco Boktai del 2003 per Game Boy Advance, la cui cartuccia contiene un sensore per la luce solare sfruttato in modo da farci giocare al sole «vero» per vincere sulle tenebre numeriche.

Kojima partecipa con la sua personale casa di produzione, costola di Konami, alla realizzazione del notevole Castlevania Lords of Shadow, confermando la sua ossessione per i vampiri. Degni di ricordo sono gli spin-off per PSP, la prima portatile di Sony, dedicati a Metal Gear ovvero Portable Ops e il capitale Peace Walker.

Con Metal Gear Solid V Phantom Pain, l’episodio più personale, incompreso e sperimentale della saga finisce la lunga esperienza di Kojima con Konami, licenziato da una software house che ha ritenuto di non avere più bisogno del maestro e di assecondare la sua creatività. Sull’altare di questo incolmabile dissidio è stato sacrificato Silent Hills, il gioco horror con la collaborazione di Guillermo De Toro la cui sola «demo» uscita per Playstation 4 è l’oggetto ludico più avanguardistico e terrorizzante mai esperito. Purtroppo, il progetto è stato cancellato.

Ma Kojima non si ferma, va oltre la sua identità sancita dai decenni e continua, formando la sua società indipendente, Kojima Productions, per la quale sta sviluppando una nuova opera per Playstation 4, il cui trailer ha sconvolto il pubblico dell’E3 2016 di Los Angeles. Si tratta di Death Stranding, annunciato con le immagini ermetiche, allegoriche e struggenti di un neonato connesso con un artificiale cordone ombelicale al padre nudo e ammanettato che l’ha partorito su una spiaggia catramosa dove giacciono le carcasse di pesci, crostacei e cetacei, mentre sullo sfondo, lontane, si percepiscono figure inquietanti levitare nel panorama di un cielo grigio e luttuoso. Non sappiamo ancora niente di quello che sarà il gioco vero e proprio, se non che il protagonista è l’attore Norman Reedus renderizzato. Ma non importa, ciò che conta è che Kojima, maestro del gioco, della narrazione e della visione, stia di nuovo scatenando il suo genio.
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