A tratti insostenibili sono i film di Vitaly Mansky, regista nato in Ucraina a Lviv (Leopoli) nel ’68, che sembra accompagnarti con la sua telecamera negli ambienti più domestici e inoffensivi e poi procede senza pietà fino a toccare punti nevralgici della storia contemporanea. Tra i suoi più famosi documentari ha fatto scalpore recentemente Under the Sun girato in Corea del nord, premiato proprio a Trieste. Tra i film che costituiscono la rassegna dedicata al regista con Cuts of Another War (’93), Bliss (’96), Monologue (’99) Broadway. Black Sea (2002), Virginity (2008), Patria o muerte (2011), sarà presentato tra gli altri il suo ultimo Close Relations (2016, titolo originale Rodnye, i miei cari) che indaga attraverso visite ripetute a tutti i suoi parenti «dell’est e dell’ovest» dopo la rivoluzione di piazza Maidan. Si ricompone un’immagine dell’Europa centrale a cui le vicende degli ultimi anni, le annessioni e manifestazioni, i conflitti che hanno interessato Russia e Ucraina appaiono nella loro drasmmaticità più profonda. Non come la vediamo attraverso gli scherm televisivi, ma in quegli interni scarni, ricchi di umanità e tradizioni. Ci si interroga sull’uso dell’appartenenza a cominciare dall’uso della lingua russa o ucraina a cominciare dalla domanda emblematica: «come è possibile che polacchi lituani siano ucraini?» con una risposta altrettanto chiara: «tutto è possibile in questo strano paese». Nessuno nel passato si era posto il problema di registrarsi russo o ucraino, dice nel film. Da Lviv, la sua città di provenienza, cuore del film ci si reca a Odessa dove la scalinata è sempre al suo posto (ne discende una sposa) si va a trovare una zia che ha speso la sua vita lavorando per il partito comunista, tanto scioccata dalla rimozione della statua di Lenin a suo tempo quanto pronta a staccare il poster di Michalkov che teneva appeso fin dal 1990. A Sebatopoli l’inno nazionale russo esplode nella notte di capodanno dopo il discorso di Putin. Quindi nuovamente in Ucraina dove si contano i morti che il conflitto causerà. A Kiev dove si visita la «reggia» di Janukovic e nel Donbass dove campeggia Stalin sui manifesti finché di nuovo a Lviv si fanno i preparativi per il nipote più giovane della famiglia che, diciottenne, si prepara a entrare nell’esercito.
Un lungo viaggio tra confini annullati dai legami familiari. «Quando ho cominciato a fare questo film sulla mia famiglia, dice, il mio paese per me era la Russia. Ora è cambiata la Russia e anche la mia vita personale». Più che un film, una personale tragedia, sempre stemperata dal senso della prospettiva storia («sono stati qui gli austroungarici, i polacchi, poi i russi. E nessuno li capiva…»)
Se il documentario è, come dice Mansky il metodo per capire qual è il proprio posto nella realtà, Close Relations ne è lo straordinario esempio. E, dopo essersi attirato gli strali della Corea del nord, pur con una sceneggiatura, locations e veti precisi da parte loro, con questo si è anche attirato l’ostilità del governo russo per cui il ministero della cultura gli ha ritirato i finanziamenti. Oltre alla pesante accusa di svolgere attività antistatali. Bloccato in Russia nella sua professione ora il suo posto nella realtà è in qualche altra parte del mondo. Eppure c’erano già tutti i pericolosi avvertimenti anche in alcuni dei suoi lavori precedenti come Gagarin’s Pioneers. Our Motherland (2004. I Pionieri di Gagarin. La nostra madre patria) che in alcuni punti sembra ancora più drammatico, dove rintraccia i suoi compagni di scuola riuniti un tempo nella fatidica foto di gruppo ed ora si sono trasferiti da Lviv in varie parti del mondo. La differenza tra la povertà e la vita semplice della vecchia Europa dell’est e l’opulenza di San Francisco è enorme. Qui vive l’oftalmologa di successo da settemila operaizoni all’anno, mentre l’ucraina Vita appena finito il tg che annuncia la vittoria delle presidenziali è pronta a scendere in strada con gli altri a manifestare, «pronta a sacrificare la vita», dice. E allo stesso modo, cinque minuti dopo aver visto il risultato della votazione del parlamento russo sull’autorizzazione a mandare truppe in un paese confinante, il regista prese la decisione di andar via. Un minuto dopo aveva i biglietti per Riga, dopo tre giorni trovava un appartamento. Ma il suo rapporto con la Russia continua per organizzare il festival Artdokfest, il grande festival di documentari.
«A Mosca non si ha il diritto legale di mostrare agli amici (per esempio nel bar vicino casa) neanche un filmino del proprio gatto fatto con il telefonino, senza prima aver ottenuto uno specifico documento di autorizzazione valido per questo film. E per ottenerlo devi passare attraverso tutta una serie di operazioni che richiedono tempo, denaro, esperienza. E se non lo fai possono condannare in tribunale te e anche il proprietario di quel bar» così risponde a chi gli chiede notizie sulla censura in Russia, dove, dice, lo stato esige che i documentari diventino strumenti di propaganda. Altrimenti nessuno li vedrà mai.