Vittorio Moroni

«Il confronto con l’omertà, a vari livelli, è la chiave del nostro film, da cui il titolo. È il silenzio con cui i francesi hanno cercato di tacere a se stessi gli anni del colonialismo, della guerra, del tradimento dei loro soldati algerini e delle relative famiglie, ma è anche il silenzio della generazione che ha vissuto il trauma e che ha deciso o non è stata capace di trasmettere alla generazione successiva questa memoria». Così Vittorio Moroni racconta N’en parlons plus (Non parliamone più), il film realizzato insieme a Cecile Khindria che sarà proiettato stasera al Cinema Farnese di Roma nella rassegna «Solo di martedì» dopo essere stato presentato al Torino Film Festival e al Fescaaal.
Il silenzio è il muro con cui si scontra Sarah, giovane donna francese figlia di algerini. La sua famiglia non è una qualsiasi, suo nonno era infatti un harki, come vengono chiamati coloro che hanno scelto di combattere a fianco dell’esercito colonizzatore durante la guerra di liberazione. «Noi abbiamo sostenuto il suo desiderio di indagare e lei è diventata la nostra sonda nel cuore di quella comunità. L’inizio è stato comunque difficile. Anche di fronte ad una discendente harki le porte continuavano a rimanere chiuse» afferma Moroni. Sarah cerca infatti di ricostruire il perché di quella scelta e soprattutto ciò che è successo dopo, quando gli harki sono stati costretti a fuggire dal Paese e si sono rifugiati in Francia. Dove il loro appoggio fu ripagato dalla reclusione in campi come quello di Bias per circa quindici anni, e la ribellione si pagava con l’internamento in manicomio. Nelle note di regia si parla di un «doppio tradimento», che Moroni spiega così: «Gli algerini hanno accusato gli harki di aver tradito la lotta per l’autodeterminazione del proprio popolo, e gli harki hanno accusato i francesi di essersi serviti di loro per poi disarmarli, alla fine della guerra, e abbandonarli ad un destino terribile. Quelli che hanno raggiunto la Francia accusano i francesi di averli segregati come se avessero la peste».

SONO FERITE profonde che nessuno sembra, inizialmente, voler affrontare. Né i membri della famiglia di Sarah, né le persone che ancora – sorprendentemente – vivono a Bias, dove sono state ricavate delle case. È qui che, pian piano, i ricordi delle terribili esperienze vissute affiorano e la camera dei due registi si fa testimone, insieme ai materiali d’archivio, delle ultime tracce di una storia volutamente dimenticata. «Per me e Cecile la questione etica più rilevante è stata: a quale distanza stare dai personaggi e dalla loro intimità? Quanto di questa memoria che insieme a Sarah stiamo evocando appartiene alla sua famiglia e quanto alla società intera? Credo che chi vede il film possa comprendere visivamente la risposta che ci siamo dati».

Una scena del film

È UN EQUILIBRIO in effetti non semplice da trovare, mentre i discendenti cercano di spiegare e spiegarsi perché i propri genitori hanno scelto il lato «sbagliato» della storia – e le ragioni sono le più varie. Dalle testimonianze emerge comunque un’onta, un non detto difficile da elaborare. Ma a gridare vendetta è il trattamento della democratica Francia nei confronti dei suoi «alleati», utilizzati e poi sradicati in Algeria, indesiderati e sacrificabili in Europa. «Dopo 50 anni Macron è stato il primo Presidente a scusarsi pubblicamente, a nome dello stato francese, con gli harki. Ma nessuno dei discendenti che abbiamo incontrato è sembrato appagato da queste scuse, evidentemente tardive e inefficaci rispetto alle vite di generazioni che sono state compromesse». Segno di come i soprusi e le ingiustizie della colonizzazione vanno ben al di là dalle date segnate sui libri di storia.