«Cosa fai lassù? Scendi!». «Voglio morire, adesso. È meglio morire subito. Vogliamo mangiare. Vogliamo vivere. Vogliamo mangiare. Vogliamo mangiare». Lo ripete a voce sempre più alta, arrampicato su un traliccio dell’elettricità lungo il muro che divide Gaza dall’Egitto. Si rivolge ai soldati egiziani, dall’altra parte. È un ragazzino, dice che ha fame. Un giovane gli dice di scendere: è pericoloso.

Il video pubblicato su Instagram da un’attivista palestinese ieri faceva il giro della rete. È stato pubblicato nelle stesse ore in cui l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa, scriveva che il 30% dei bambini di Gaza sotto i due anni soffre di grave malnutrizione. «Livelli senza precedenti. Non c’è tempo da perdere».

LE FOTO DI MINORI ormai pelle e ossa sono pubbliche. Moltissimi dei neonati in questi mesi di guerra nasce già sottopeso. Una situazione «oltre la catastrofe», avvertiva ieri Jagan Chapagain, capo della Federazione internazionale della Croce rossa e della Mezzaluna rossa: i civili di Gaza affrontano «un livello senza precedenti di offesa, miseria e sofferenza». Simili dichiarazioni, ormai giornaliere, non scuotono. Sempre più allarmate, sempre più frustrate. Agenzie Onu e ong umanitarie parlano ma nessuno le ascolta davvero.

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Medici senza Frontiere, con un membro dello staff ancora nel nord, dice che lassù non c’è più niente e che l’unica clinica dove è presente riesce solo a curare le ferite più semplici. Ieri verso le coste gazawi era diretta la seconda imbarcazione piena di aiuti alimentari organizzata dalla World Central Kitchen, dopo lo sbarco – venerdì – della Open Arms che ha portato 200 tonnellate di cibo. La chiatta è stata spinta a riva con dei barchini.

Sembrerebbe il modo per aggirare i valichi via terra, semi blindati (ci sono centinaia di camion in Egitto in attesa del via libera israeliano a entrare). Non lo è perché è comunque Israele a decidere, anche via mare, cosa entra e quando: è una delle forme che ha l’assedio totale su Gaza.

Un mix di violenza militare e «umanitaria». Ieri si è scavato a lungo tra le macerie di una casa nel campo profughi di Nuseirat, nel centro di Gaza, distrutta da un bombardamento aereo venerdì notte. Alla fine hanno recuperato 36 cadaveri, tra loro dei bambini e una donna incinta. Poco più tardi, era già sabato, un altro raid nel campo ha ammazzato sette persone. «È uno spazio piccolo, densamente popolare. Israele non prende nessuna precauzione per proteggere i civili. È assolutamente terrificante», diceva in diretta tv uno dei corrispondenti di al-Jazeera.

Il bilancio ufficiale dal 7 ottobre è di 31.533 palestinesi uccisi e 73.546 feriti. Il 70% sono donne e minori. Contando circa 10mila persone mai recuperate dalle macerie, significa che il 5% della popolazione di Gaza è morta, ferita o dispersa: un palestinese su 20.

IL RAMADAN non ha portato l’accordo di cessate il fuoco che in tanti agognavano, a parole, ma sul tavolo ancora qualcosa c’è. Oggi o lunedì potrebbe ripartire a Doha il negoziato indiretto tra Hamas e Israele, a partire dall’ultima proposta del movimento islamico, tre fasi di 42 giorni (sei settimane) l’una: il rilascio di 35 ostaggi israeliani per 350 prigionieri palestinesi e il ritiro israeliano dalle due principali direttrici di Gaza; cessate il fuoco permanente e rilascio degli ostaggi rimanenti; consegna dei corpi degli israeliani morti a Gaza in cambio della fine dell’assedio.

Netanyahu ha definito la proposta irrealistica, ma ha inviato il suo team di negoziatori, con «ampio» mandato. Tra loro il capo del Mossad, David Barnea. Sarà lui, si legge da indiscrezioni di stampa, a discutere con qatarini ed egiziani del numero di prigionieri palestinesi e ostaggi israeliani da liberare. Ieri dal team israeliano è giunta un’apertura: il piano di Hamas non è così irricevibile.

Doha e Il Cairo sono i volti negoziali dell’altro peso massimo, gli Stati uniti, che ieri hanno dato voce all’insofferenza dell’amministrazione Biden per i piani militari israeliani su Rafah. Lo dice la Nbc, citando funzionari statunitensi di alto livello: la Casa bianca starebbe considerando diverse opzioni in risposta ai ripetuti rifiuti israeliani a conformarsi alla richiesta del presidente Biden di non invadere Rafah via terra.

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A monte, il crescente fastidio misto a frustrazione che monta tra i democratici Usa per l’arroganza israeliana che ignora apertamente l’alleato. Un fastidio a cui due giorni fa hanno dato voce Chuck Schumer, leader dem al Senato, e il segretario di stato Blinken: il primo ha auspicato elezioni anticipate contro Netanyahu, il secondo ha lamentato di non aver ancora visto il piano-Bibi per Rafah.

BIDEN ha dato a Tel Aviv un termine, il 24 marzo, per fornire garanzie scritte sull’uso che fa delle armi fornite dagli Stati uniti, se le utilizza in conformità con la legge nazionale e quella internazionale. Non è chiaro cosa accadrà nel caso in cui le autorità israeliane non si adeguino: uno stop alla fornitura di armi o un suo ridimensionamento segnerebbe una frattura senza precedenti.

Violenze anche in Cisgiordania. Ieri un palestinese è stato ucciso dall’esercito a Hebron, dopo aver aperto il fuoco contro una colonia senza provocare feriti né danni. I militari israeliani hanno chiuso l’intera città vecchia, strade e negozi. Nella notte nella Cisgiordania occupata arrestati 20 palestinesi. Dal 7 ottobre sono oltre 7.600 i nuovi prigionieri politici.