Spazi disegnati da un’architettura coloniale, un albergo popolato soprattutto di assenze, dove si aggirano i fantasmi del passato, quando nelle sue stanze prendevano dimora gli angolani che provenivano da altrove, migranti per motivi economici ma anche artisti.
Hotel Globo, a Luanda, filmato da Monica de Miranda, è un edificio simbolico, un «contenitore» di storia svuotato oppure – a seconda di come si vuole procedere con la narrazione – un posto di identità nuove, di ibridazione di culture e tradizioni. I suoi corridoi vengono ripresi in un tempo sospeso, l’atmosfera che si respira è quella un po’ fiabesca dei luoghi abbandonati, ricolmi di memorie: un territorio precario di per sé (un hotel, quindi casa di passaggio) che si riabilita come monumento alla diaspora. Il mare, invece, la sua risacca, i suoi venti, il rumore delle onde che s’infrangono sulla sabbia – unica colonna sonora – è il protagonista assoluto di Mionga House di Rene Tavares & Kwame Sousa: siamo sull’isola di São Tomé, spiando una comunità che vive in palafitte lungo la costa, antichi discendenti da schiavi di un’imbarcazione naufragata: qui l’architettura è reinvenzione quotidiana a partire da sé, dai propri bisogni con l’ausilio dei materiali locali, relitti in legno, pezzi di plastica ma anche frammenti di una natura rigogliosa che viene «piegata» alla geometria delle case.
Dal mare alla Laguna: il trasferimento è sull’Isola di san Giorgio, a Venezia dove, nella sala del Piccolo Teatro della Fondazione Cini, vengono proiettati in loop i cortometraggi di artisti che cercano di riflettere sul colonialismo nelle repubbliche africane di lingua portoghese, sui suoi lunghi tentacoli e il rigetto possibile delle sue istanze. Ilha de São Jorge – il cui titolo gioca anche con il luogo reale – è la mostra dell’extraterritorialità, una rassegna (fino al 6 luglio) a cura di Paula Nascimento e Stefano Stefano Rabolli Pansera, che prosegue la ricerca di Beyond Entropy (culminata nel 2013 con il Leone d’oro al padiglione angolano per Luanda, Enciclopedic City). S’indaga sulle prospettive di sviluppo urbane di quei territori (si va dal Mozambico alla Guinea Bissau passando per Capo Verde) e l’occasione per far convergere questi artisti a Venezia è data da Absorbing Modernity 1914-2014, una delle mappe concettuali in cui si dirama la Biennale di Rem Koolhaas.
Stili di vita che mutano, territori che lasciano dietro di loro le vecchie impronte per aprirsi a un futuro incerto: il film di Kiluanji Kia Henda (fotografo angolano) Concrete Affection fa risuonare tra le immagini le parole di Kapuscinsky: la città abbandonata dai coloni portoghesi diviene la cornice per un’affabulazione sentimentale e intima. Il narratore, infatti, ricorda il suo viaggio dello sradicamento, quando in sole 24 ore dovette lasciare il luogo della sua esistenza. Un’elegia «on the road» in cui trova posto anche un amore perduto, la figura sognata e agognata di una donna impossibile da avere. Capo Verde arriva sullo schermo con la storia di Mindelo – è Irineu Destourelles a proporla – città che, a causa della scarsità di risorse, ha vissuto una forte emigrazione. Governata da un partito marxista dalla sua indipendenza dal Portogallo fino al 1990, ha dovuto poi fare i conti con le leggi spietate della globalizzazione e si è adattata in maniera cinica. Almeno così dimostra il linguaggio in uso: l’artista mette in scena (su schermo nero) una sorta di dizionario filmato che fa trasmigrare parole di origine greca o portoghese in creolo, un’etimologia che racconta di perversioni sessuali, droga, malaffare. È un processo di appropriazione post coloniale che conduce i suoi abitanti direttamente all’inferno.
Poetico, quasi una ballata, è invece il documentario di Filipa César (Porto, 1975) e Suleimane Biai (Farim, Guinea Bissau, 1968). Uma Cabana è un’epopea antica e moderna che insegue il ritmo tradizionale del modo di costruire le case, con le sue assemblee, la ritualità di tutti i giorni, la felicità semplice dell’essere padroni del proprio destin, una volta che si è inseriti in un tessuto sociale collettivo, pronti a realizzare un «parlamento» aperto a ogni membro.