Nato nel 1928 da famiglia protestante nella contea cattolica di Cork, e emigrato in Inghilterra nel 1954, da mezzo secolo William Trevor – l’ormai anziano padre della narrativa irlandese contemporanea – continua a raccontare il suo paese con l’intensa passione di chi, benché distanziato dall’«esilio», si dimostra incapace di distoglierne lo sguardo, o di staccare il filo della memoria con il quale penetra il tempo atavicamente ferito dell’Irlanda. Se Il viaggio di Felicia (1994, Guanda 1996), da cui Atom Egoyan ha tratto un film di successo, resta a tutt’oggi il suo romanzo più celebre, Trevor è, tuttavia, maestro di maggiori sottigliezze nella misura del racconto. È in questa forma che il suo occhio scruta a fondo psicologie, relazioni umane e paesaggi – urbani e rurali – dove, sotto la cosmesi dell’emancipazione postcoloniale, giacciono stratificate, come un’ossatura portante, le complessità del tessuto politico, identitario, socio-culturale e religioso della sua nazione: il peso, mai del tutto alleggerito, della Storia (le origini celtiche, i secolari travagli indipendentisti, la convivenza tra cattolici e protestanti).

Non stupisce dunque che ormai da tempo l’editore Guanda abbia intrapreso la diffusione anche in Italia della narrativa breve di Trevor (oltre una dozzina di volumi e un Collected Short Stories del 2009), proponendo negli ultimi anni Notizie dall’Irlanda (1986, 1998), Gli scapoli delle colline (2000, 2001), Regole d’amore (1981, 2005), Uomini d’Irlanda (2007, 2010) e adesso Peccati di famiglia (1990), la sua settima raccolta e fra le migliori (in italiano decurtata di quattro racconti, traduzione di Laura Pignatti, pp. 203, euro 16,00).
Con Trevor sembra ripetersi il fenomeno di recupero toccato alla canadese Alice Munro, con la quale condivide le sicurezze tecniche di un’arte esercitata nelle sue forme più enigmatiche, all’altezza – ma con una Weltanschauung e delle istanze ermeneutiche diverse rispetto a quelle di Alice Munro – delle vette post-cecoviane raggiunte dai maestri della prima metà del Novecento, da Joyce agli americani che Trevor ammira: Fitzgerald, Hemingway, Faulkner, Carson McCullers, Updike.
Nel praticare una formula narrativa che cerca la sua compiutezza nella sottrazione di elementi, o nell’emersione della sola «punta di un iceberg» – come teorizzò Hemingway –, un modo per dar «forza» a ciò che si include, Trevor predilige le selezioni silenziose dello sguardo, il ritaglio decontestualizzato del frammento di memoria, le setacciature traumatiche distillate dal mondo dell’infanzia, come pure – su un altro versante – le allusioni ellittiche a eventi di vasto significato politico con la mera menzione di un nome, un semplice antroponimo, sufficiente a ricordare la sacralità di un passato patriottico (Terry MacSwiney, Michael Collins, Éamon De Valera, «gli uomini del ’98»). A differenza del romanzo, paragonabile a «un intricato dipinto rinascimentale», il racconto, ha affermato Trevor in un’intervista alla Paris Review, è «l’arte di un barlume», un’«arte essenziale», «impressionista», ma finalizzata a liberare «un’esplosione di verità».
Gli otto racconti di Peccati di famiglia – connotati in copertina da un titolo così ambiguamente religioso e non salvifico – si distribuiscono in un arco di tempo che va dagli anni quaranta agli anni ottanta. Un periodo di cambiamenti per gli irlandesi, che tuttavia nelle rappresentazioni di Trevor continuano a preservare nel loro fondo lo spettro di una lacerazione antica, una scena primaria raggrumata nel passato come lascito atavico, e destinata a prendere corpo e contestualizzarsi col trascorrere del tempo. «È probabile che il mio senso della tragedia – ha precisato Trevor – venga dall’infanzia». Ed è forse questa la ragione del suo procedere gradualmente nella scrittura: per tagli obliqui, visioni parziali, sovrapposizioni temporali e una parcellizzazione della realtà.
Un buon esempio del suo metodo è l’esordio quasi metatestuale del secondo racconto: «Le immagini si amalgamano, i frammenti si fondono a formare l’intero. Il primo ricordo di Barney è un portaburro rovesciato – quella forma particolare più stretta alla base. È in un angolo del giardino in cui l’erba cresce alta … Barney raccoglie i garofani e addobba il cane infilandoli nel pelo pezzato». Così ha inizio la storia del protagonista di Per amore di Ariadne, con le scarne impressioni del gioco con un cane e la focalizzazione su un banale oggetto capovolto in un giardino, dove d’improvviso si infiltra una voce senza volto e l’orlo di un abito, forse quello della madre che il bambino perderà poco dopo e non conoscerà mai: «“Sei proprio un monello!” L’orlo della gonna è azzurro, le scarpe nere». Le immagini spezzate raccolte dallo sguardo limitato si riordineranno negli anni universitari a Dublino, quando Barney incontrerà Ariadne, una ragazza all’antica, silenziosa e riservata, verso la quale si sente inspiegabilmente attratto. Ariadne, tuttavia, rifiuterà il suo amore perché oppressa dalla vergogna del ricordo di un padre suicida per aver molestato una bambina. Si esilierà in un convento. Nella «paralisi», quasi joyciana, sperimentata da questi due dublinesi di Trevor, il giardino dell’infanzia di Barney (e di Adriane), con le sue presenze capovolte, è spazio arcaicamente incrinato che nega l’apertura a felicità future.
Nell’infanzia si pone anche il senso della vicenda di Hubert, il protagonista ribelle e in apparenza scapestrato (o piuttosto disadattato) del racconto eponimo, il quale gioca a umiliare con perversa cattiveria la cugina Pamela che di lui si è invaghita. Sarà solo quando, in un rapido flash, verrà svelata la scena in cui Hubert apprende le circostanze grottesche della morte dei suoi scapestrati genitori nelle vicinanze di un circo, che la sua storia acquisterà profondità diverse: «Un’automobile giaceva rovesciata su un fianco, i fari illuminavano le scimmie in fuga dalla gabbia spezzata. Sull’erba insanguinata lungo il ciglio della strada le due facce morte sorridevano ancora. «“Non ci sarà un giorno più nero di questo per te” prometteva la voce del direttore della scuola». Nel suo «giorno più nero» il piccolo Hubert si assume, inconsapevolmente, il peso dell’irresponsabilità parentale, il «peccato di famiglia», con cui si condanna a convivere, rinunciando ad amare.
«Gran parte di quello che scrivo ha a che fare con ciò è interiorizzato – ha affermato ancora Trevor nell’intervista del 1989 – è un fluire indietro nell’infanzia, verso un evento minimo, l’accadimento di un momento. Isolando un incontro, un incidente nel passato si prova a ricostruire una vita reale, e non si può costruire una vita senza usare il tempo in un certo modo. Credo che il racconto sia molto simile al ritratto». Questa dichiarazione di poetica, coeva alla scrittura dei racconti di Peccati di famiglia, è una risposta alla domanda che si pone Charlotte, l’umile artista inglese protagonista di Stampe: «Succede anche nella vita di altre persone che un singolo evento influenzi tutto ciò che viene dopo?»
La vita di Charlotte si è fermata al tempo in cui, ospite sedicenne di una famiglia in Francia, si innamora, apparentemente ricambiata, dell’affascinante monsieur Langevin, sposato e padre dei due bambini dei quali lei si prende cura. Il tempo, per Charlotte, non riuscirà «ad attutire la passione negata», e di quella negazione ella continuerà a riempire la sua esistenza e le immagini che crea nelle sue stampe in serie, dove registra compulsivamente fotogrammi di quel breve singolo evento vissuto in Francia, nell’attesa illusoria che quanto allora è andato perduto potrà prima o poi essere ritrovato.
È «un’illusione» che si possa «sconfiggere» il tempo, si legge in uno di questi racconti. Un aforisma che non si smentisce in Sabato d’agosto, ambientato nei più emancipati anni ottanta. Grania, che porta il nome di un’antica dea del grano e della compagna del leggendario guerriero Finn McCool, rivede inaspettatamente lo squallido sconosciuto inglese con cui vent’anni prima ha voluto concepire la figlia che il marito non poteva darle. Il ricordo della trasgressione è rivissuto con imbarazzi e sensi di colpa. Il passato resta piaga insanabile, e il tempo è persecutore anche per questa donna nuova di una vecchia Irlanda, la quale, a differenza di Ariadne o di Pamela, può tuttavia vantare una rivincita sullo storico asservimento femminile di matrice coloniale, una vittoria, ottenuta a caro prezzo, su uno stereotipo che appare – si auspica – ormai in scadenza.