Noi vi lasciamo manifestare, ma voi fate i bravi, evitate «comportamenti provocatori», rispettate «le prescrizioni», chiedete il permesso. Non fate avvicinare «esponenti dell’area antagonista», qualsiasi cosa voglia dire, o dio non voglia «estremisti». Altrimenti capiterà ancora che qualcuno si farà male. Non si sa come e perché, visto che la polizia a Firenze e a Pisa ha solo «contenuto» o «alleggerito» e diciassette manifestanti di cui undici minorenni si sono feriti, probabilmente da soli.

Il poliziotto Piantedosi era stato chiamato in parlamento per dare conto del pestaggio, violento e immotivato, che ha mandato in ospedale ragazzini e ragazzine che sfilavano per la Palestina. Pestaggio per il quale il ministro era stato richiamato anche dal capo dello stato che ha parlato con chiarezza di un «fallimento». Il primo poliziotto ne ha approfittato per fare il contrario. È arrivato in aula impettito e orgoglioso e per prima cosa ha chiamato un applauso dei parlamentari per i picchiatori. E lo ha avuto, lungo e osceno.

Siamo già qui dunque, ed era prevedibile che con questo governo ci saremmo arrivati presto: alla rivendicazione della violenza. Il prefetto elevato a ministro tiene sulla scrivania il Testo unico di pubblica sicurezza e pazienza se è un codice del 1931 firmato da Vittorio Emanuele II, Rocco e Mussolini.

La Costituzione prevede la libertà di riunione e nessuna autorizzazione? Conta poco, il suo codice dice che bisogna avvertire tre giorni prima. I manganellati se lo sono dimenticati e così in piazza hanno avuto il fatto loro perché erano «in totale violazione della legge». Rischiavano al più un centinaio di euro di multa, ma non si può pretendere che Piantedosi sappia distinguere tra la Costituzione e un verbale di contravvenzione.

Con in mano le sue carte di questura, il ministro davanti ai parlamentari non è arretrato. Ha caricato anche lui. Ha negato che ci siano state esplicite direttive repressive da parte del governo alle forze dell’ordine, eppure stiamo parlando del governo che ha esordito con una decreto anti raduni e ora vuole sbattere anni e anni in galera chi fa resistenza passiva. «La polizia – ha giurato il prefetto ministro – non segue indicazioni del livello politico».

Voleva rassicurarci? Ci sta invece dicendo che è inutile chiedergli di darsi una calmata, al più risponderanno, come quel carabiniere a Milano, che il capo dello stato non li rappresenta.

Siamo già qui e forse anche oltre, visto che la presidente del Consiglio che in genere sta zitta quando è in difficoltà stavolta ha scelto di polemizzare con il presidente della Repubblica. Ce l’aveva con lui, con chi altri, quando ha infilato il casco e alzato lo scudo dicendo che «è molto pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni alla polizia». Cosa che Mattarella non aveva fatto. Il presidente aveva però, e lui da solo, condannato la brutalità dei pestaggi. Quelli che Meloni e Piantedosi evidentemente difendono, al più concedendo la seccatura di un’indagine interna (ma gli «antagonisti» li hanno identificati e sanzionati subito). E per difenderli, la presidente del Consiglio non esita a forzare la coabitazione istituzionale, ad anticipare l’incoronazione diretta che sta cercando di introdurre in Costituzione e a sfidare apertamente il presidente della Repubblica. Questo sì un gioco molto pericoloso. Ma anche, ormai, molto chiaro.