Una giornata piena di riunioni al Megaro Maximou, sede del governo, ma anche di informazioni contraddittorie per un’eventuale intesa tra Atene e i suoi creditori. A piazza Syntagma di fronte al parlamento, questa volta era presente il «fronte del sì», ovvero i greci che vorrebbero ad ogni costo un accordo con le «istituzioni». Migliaia di persone a manifestare la volontà di accettare le condizioni dei creditori, spinti per strada – forse – dalla campagna mediatica dell’opposizione che ritiene che il referendum possa allontanare, per sempre, la Grecia dalla Ue.

Di sicuro rappresentano una parte dei greci, compresi alcuni elettori di Syriza, che non vogliono in alcun modo il rischio di un’uscita dall’euro. Il premier Tsipras (che ieri ha avuto comunicazioni telefoniche con Draghi, Merkel, Hollande e Schulz), secondo alcuni media locali si sarebbe schierato a favore di una soluzione sostenibile; altre fonti – invece – dicevano che «siamo molto vicini ad un’intesa». Lo stesso Tsipras che fa campagna per il «fronte del no», è stato chiaro anche durante un’intervista alla tv pubblica Ert lunedi sera: «rispetteremo la volontà dell’elettorato, anche se io non sono un uomo per tutte le stagioni». Vale a dire che nel caso vincesse il «fronte del sì», il premier non ha altra scelta che dimettersi, aprendo la strada ad un ricorso anticipato alle urne e a un periodo di instabilità politica. In tal caso il governo delle sinistre sarebbe una parentesi e la sconfitta non sarà soltanto greca.

A questo punto si pone la domanda: perché il premier greco non si è aggrappato all’opportunità fornita da Juncker, che avrebbe proposto un accordo in extremis (con l’aliquota dell’Iva al 13% per gli alberghieri e i servizi turistici e non al 23%) e un impegno da parte dell’ Eurogruppo per una ristrutturazione del debito? Tanto è vero che Tsipras ha annunciato il referendum per far maggior pressione sulle «istituzioni» affinché riducessero le pretese per arrivare ad un’intesa e per «distribuire» il peso della responsabilità di una decisione che potrebbe essere interpretata come una resa ai creditori o, in caso contrario, un salto nel buio.

Nel caso dovesse esserci un accordo prima del referendum della domenica prossima ci sono due possibilità: o la consultazione verrà annulata, un’eventualitá tutto sommato scarsa – «il referendum comunque sarà realizzato» ha detto ieri il ministro Nikos Pappas, braccio destro di Tsipras – oppure il governo si schiererà a favore del «si».

La maggioranza dei greci vuole continuare a utilizzare la moneta unica e preferirebbe un accordo con i partner europei del Paese piuttosto che una rottura. È quanto risulta da due sondaggi effettuati prima di sabato, giorno in cui Tsipras ha annunciato il referendum. Nel sondaggio della Alco per il settimanale Proto Thema, il 57% degli intervistati ha detto di ritenere che la Grecia dovrebbe fare un accordo con i partner europei, mentre il 29% ha detto di preferire una rottura.

Dal sondaggio condotto dalla Kapa Research per il quotidiano To Vima è emerso che il 47,2% degli intervistati voterebbe a favore di un accordo, per quanto doloroso, con i creditori, contro il 33% che voterebbe no e il 18,4% di indecisi. Entrambi i sondaggi sono stati condotti a livello nazionale dal 24 al 26 giugno. Tenendo poi conto del clima di preoccupazione e di tensione creatosi dalla decisione di chiudere le banche greche, analisti fanno notare che «la percentuale a favore di un’intesa e quindi del sì dovrebbe essere aumentato».

A questo spostamento ha contribuito la campagna di intimidazione, se non di terrorismo dell’opinione pubblica da parte dei media mainstream, alimentata da altri due fattori: la chiusura delle banche seguita dal capital control e il limite dei 60 euro al giorno dai bancomat. Oggi apriranno i battenti a quasi mille filiali per pagare le pensioni ai clienti che non possiedono carte di credito, ma il clima è peggiorato rispetto ai giorni precedenti.

La confusione, l’ansia e il nervosismo sono evidenti sui volti delle persone, in gran parte pensionati, che sotto la pioggia fanno delle lunghe file di fronte ai bancomat, soprattutto quelli della National Bank of Greece. La polizia greca è stata posta in stato di allerta nel timore di attentati dinamitardi contro i bancomat o tafferugli tra i clienti in fila. Preoccupati pure i commercianti e le aziende di esportazione, perché oltre al calo pauroso delle vendite – già ridotte – hanno problemi di liquidità. 350 milioni di euro saranno persi questa settimana, secondo l’Associazione dei commercianti di Atene. Inoltre, il «fronte del sì» sta crescendo perché il governo non ha ancora chiarito cosa fare il giorno dopo il referendum nel caso vincesse il «no», rispetto alle proposte dei creditori. Il discorso generico «avremo un potere di negoziato più forte» convince i militanti di Syriza, ma non tanti altri elettori.

Un «no» forte sicuramente rafforzerà il potere contrattuale del premier greco, ma presentandosi a Bruxelles Tsipras rischia di non trovare i suoi interlocutori delle «istituzioni» perché semplicemente potrebbero dire che il negoziato è terminato. A quel punto la Grecia camminerà su «acque sconosciute». La Bce potrebbe chiudere i rubinetti -da ieri il Paese non è più nel programma di aiuti e l’agenzia di ratings Fitch ha declassato le quattro banche elleniche al grado Rd (fallimento in parte, Restricted default)- provocando in un primo momento il crollo del sistema bancario greco e in seguito, l’intervento dello stato. Con un’economia in ginocchio da parecchi anni causa recessione, il governo greco, anche se non lo vuole, non avrebbe altra possibilità che chiedere aiuti da paesi fuori dalla Ue, nazionalizzare gli istituti di credito e stampare la dracma.

Visto che il presidente della Repubblica, Prokopis Pavlopoulos, ex ministro della Nea Dimokratia, ha chiarito parecchie volte che «non sarò mai il presidente di un paese che esce dalla moneta unica», nel caso di un ritorno alla dracma Pavlopoulos si dimetterà provocando nuove elezioni. Nei trattati Ue non è prevista l’uscita di un paese membro, ma a quel punto la Grecia rischia l’isolamento e un’esplosione della crisi umanitaria. Ieri Atene ha chiesto dall’Esm la ristrutturazione del debito greco e un accordo di due anni per soddisfare i suoi bisogni di bilancio, mentre il ministro delle finanze Yanis Varoufakis ha detto che farà ricorso al Tribunale europeo nel caso i creditori dovessero obbligare il paese a uscire dall’eurozona.