Nasce sotto i peggiori auspici il primo 24 marzo dell’era Milei. A pochi giorni dal 48.mo anniversario del colpo di stato in Argentina, la notizia della brutale aggressione a una militante di Hijos, l’associazione che riunisce i figli dei desaparecidos, ha scosso profondamente le forze democratiche del paese.

La violenza era avvenuta la sera del 5 marzo, quando la giovane donna, che per il momento ha preferito non rivelare la propria identità, era tornata a casa dal lavoro e aveva trovato nella sua abitazione due uomini armati che l’avevano immobilizzata, colpita, minacciata di morte e abusata sessualmente. «Non veniamo a derubarti, veniamo a ucciderti. Ci pagano per questo», avevano detto gli aggressori, i quali, prima di andarsene – portando via solo materiale informativo di Hijos -, avevano lasciato scritto sulla parete della sua stanza la sigla VLLC, «Viva la libertad, carajo», lo slogan del presidente Milei: in perfetto stile “Triple A”, l’organizzazione di estrema destra attiva negli anni Settanta contro i rappresentanti della sinistra. I suoi vicini le avrebbero poi riferito che, nei giorni precedenti, alcuni uomini avevano chiesto di lei e domandato dove vivesse.

LA DONNA aveva denunciato la violenza alla polizia federale già la mattina dopo, ma solo il 20 marzo la rete nazionale di Hijos ha reso noto quanto avvenuto, parlando di «un attacco politico motivato dalla sua militanza a favore dei diritti umani» ed esigendo «da parte del potere giudiziario l’immediato accertamento dei fatti», non senza metterli in relazione «con le azioni e i discorsi d’odio espressi quotidianamente dalle massime autorità del paese».
«Voglio che la giustizia identifichi chi mi ha fatto questo, ma anche chi c’è dietro», chi lo ha pianificato e legittimato, ha spiegato la giovane militante di Hijos in un’intervista rilasciata a Página/12, riconducendo anche lei l’attacco di cui è stata vittima al «discorso di questo governo che rivendica la dittatura, i gruppi paramilitari, i sequestri, le torture e i meccanismi per diffondere il terrore».
Non si è naturalmente fatta attendere la risposta delle forze democratiche: dalle Nonne di piazza di Maggio al Cels (Centro di studi legali e sociali), dall’Unión por la Patria alle centrali sindacali, da Adolfo Pérez Esquivel ai più diversi esponenti politici, tutti hanno espresso la loro solidarietà alla giovane militante e condannato la violenza e i messaggi d’odio.

TUTTI TRANNE il governo, che ha preferito tacere – «Aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso», si è limitato a dire, incalzato da una giornalista, il portavoce presidenziale Manuel Adorni – o addirittura negare: «Superano ogni limite. Come possono inventare una cosa del genere?», ha commentato su X Fernando Cerimedo, responsabile della comunicazione del partito di Milei, La Libertad avanza.

Quanto al presidente, ha reagito alla sua maniera, mettendo un like a un post di una influencer nota come Lady Market (un nome a metà strada tra l’elogio di Lady Macbeth e quello del libero mercato): «Incredibile che usino i loro desaparecidos per operare contro il governo. Sono più merde di quanto si potesse pensare. La cosa buona è che hanno sempre meno credibilità», ha scritto l’influencer (che in realtà si chiama Ornella Panizza ed è un’agguerrita sostenitrice di Milei), ottenendo grazie al like presidenziale il suo quarto d’ora di gloria.

E MENTRE per il 24 marzo, Giornata della memoria, della verità e della giustizia, gli organismi per i diritti umani, insieme alle centrali sindacali, organizzeranno come di consueto una grande marcia fino a Plaza de Mayo, il governo si prepara a modo suo: con un video negazionista che metterà in discussione la cifra di 30mila desaparecidos e, secondo voci insistenti anche all’interno della Casa Rosada, con l’annuncio di un qualche «beneficio» nei confronti dei responsabili di violazioni dei diritti umani durante la dittatura.
Che si tratti di un indulto, tuttavia, è poco probabile, essendo esplicitamente vietato dalla legislazione argentina nel caso di delitti di lesa umanità, come mercoledì scorso è tornata a ribadire la Corte di Cassazione, confermando la condanna per 19 repressori del regime militare.