Senza scaldarsi troppo anche il principe dei falchi, Wolfgang Schäuble, ministro delle finanze tedesco, ha espresso il suo appoggio al Sì nel referendum italiano, accompagnato dall’auspicio che Renzi, comunque vada a finire, resti in campo. «Se votassi in Italia voterei per la riforma di Renzi. Anche se dovesse andar male spero che continuerà a cercare altre vie per far avanzare l’Italia», ha detto da Berlino.

L’endorsement non è né imprevisto né stupefacente, e il fatto che arrivi da uno dei ministri che più resistono alla concessione dei nuovi margini di flessibilità richiesti dall’Italia mette in scena il dilemma di fronte al quale si trovano i rigoristi. Sono consapevoli che, a livello europeo, la partita che si sta giocando anche intorno al caso italiano ha implicazioni che vanno molto oltre la concessione di qualche centinaio di milioni in più o in meno. Allo stesso tempo sanno anche che Renzi è quanto di meglio passi il mercato per evitare che si affermino opposizioni al rigore europeo che si rivelerebbero molto più ostiche di quella dell’attuale premier.

Sul fatto che entrambe le squadre che si fronteggiano in Europa, i “revisionisti” della Commissione da un lato, i rigoristi dall’altro, tifino per la vittoria del Sì non c’è dubbio. Il punto critico è quanto sono disposti i falchi a sacrificare per rafforzare il “fronte italiano”: una decisione che è stata rinviata a dopo il referendum proprio per evitare di creare problemi al premier incaricato di far diga «contro il populismo». Ma l’appuntamento è già fissato per il 5 dicembre, quando i ministri delle Finanze si riuniranno a Bruxelles. Il caso italiano è particolarmente delicato: si inscrive in un braccio di ferro molto più ampio, che chiama in causa l’intera politica economica europea ma si riflette immediatamente proprio sull’Italia, il Paese che più di tutti chiede la fine del rigore, anche perché più di ogni altro di quella svolta ha bisogno.

Ieri sono stati i rigoristi a sferrare il primo colpo: durissimo. Se ne è incaricato il presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem. Di fronte alla commissione Economia e Finanze dell’Europarlamento ha bocciato seccamente le raccomandazioni della Commissione a favore di una politica più espansiva. A metà novembre, in due distinti documenti, la Commissione ha raccomandato il passaggio a politiche moderatamente espansive, con investimenti aggiuntivi per la spesa pubblica pari allo 0,5% del Pil europeo. Investimenti che dovrebbero ricadere essenzialmente sui Paesi con maggiore margine di bilancio, Germania e Olanda.

I Paesi chiamati in causa hanno già respinto il cortese sollecito. Ma Dijsselbloem ha rincarato prendendo di mira l’orizzonte strategico stesso definito dalla Commissione: «Occorre salvaguardare la credibilità del Patto. Tutti i bilanci devono procedere verso l’equilibrio strutturale». Mentre la scelta di usare i margini di bilancio da parte dei singoli Paesi deve essere «non obbligatoria e non vincolante». Il passaggio sull’obbligo di procedere verso il pareggio di bilancio è rivolto a Roma non meno che a Bruxelles. E da Roma hanno risposto prima il ministro Calenda («Dijsselbloem sta prendendo una gigantesca cantonata») e subito dopo lo stesso Renzi: «Non ha consapevolezza di cosa accade in Italia».

Anche la replica della Commissione è arrivata a strettissimo giro. La portavoce della stessa ha infatti subito riaffermato che la svolta espansiva detta Fiscal Stance mira a «rafforzare il Patto di stabilità alla luce della crisi», è stata introdotta con l’accordo del Consiglio e del Parlamento europei e «tiene pienamente conto degli obblighi previsti dal Patto». Un assaggio di quel che potrebbe succedere nei prossimi mesi.