La questione greca torna ad essere drammaticamente la cartina di tornasole del comportamento dei governi e delle forze politiche europee. La richiesta di Tsipras per un summit dell’Eurogruppo sulla nuova stretta cui è sottoposta la Grecia ha ricevuto il secco no da parte di Schauble, l’arcigno ministro delle finanze tedesco.

I falchi della Ue sembrano ripetere le loro tradizionali mosse. Costringere il popolo greco sull’orlo dell’abisso – per quanto già tragica sia la sua situazione – per ottenere dal governo greco nuove e peggiori misure restrittive.

La convinzione – che si nasconde dietro la richiesta strumentale di un taglio nominale del debito – è che le nuove misure messe in cantiere (ovvero 3 miliardi di euro tra interventi sul fisco e sulle già tartassate pensioni) non siano sufficienti per rispettare le tappe del piano. Quindi vuole imporre, con l’assenso di Bruxelles, che il parlamento greco decida fin d’ora che verranno attuati, in modo praticamente automatico, nuovi interventi pari ad almeno il 2% del Pil, ovvero più o meno altri tre miliardi di euro, nel caso che gli obiettivi previsti non venissero raggiunti.

Ma una simile misura – come ha giustamente fatto notare il ministro delle finanze greco Euclid Tsakalotos – non può essere accettata e tantomeno attuata, non solo perché sarebbe un cappio al collo, ma anche anticostituzionale. Come sempre nei confronti della Grecia i poteri forti della Ue, unitamente al Fmi, usano l’arma del ricatto, contando che il tempo giochi a loro favore. Più si è prossimi a un eventuale default greco più essi sperano di ottenere quello che vogliono. Intercettazioni rese pubbliche da Wikileaks, lo hanno evidenziato in modo inequivocabile: «Bisogna portare la Grecia sull’orlo del baratro allungando i negoziati fino a luglio, perché solo quando sono con le spalle al muro fanno concessioni», diceva senza remore Poul Thomsen, responsabile europeo del Fmi.

Ma questa volta il fronte dei falchi della Ue appare meno compatto. Persino dal governo italiano giunge qualche voce dissonante, anche se i greci la considerano giustamente ancora troppo flebile. Se ne comprende il motivo. Avendo Padoan battuto il tasto della richiesta di flessibilità rispetto ai conti italiani e tenendo conto che il presidente della Bundesbank Jens Weidmann si è nuovamente scagliato contro l’eccessivo ammontare del debito pubblico del nostro paese, è logico che A Matteo Renzi convenga questa volta giocare una parte più tollerante rispetto al governo greco. In questo senso vanno probabilmente anche interpretate le dichiarazioni di Gianni Pittella, capogruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo, che denuncia esplicitamente un ricatto in atto nei confronti della Grecia e chiede di convocare un Eurosummit straordinario la prossima settimana.

Syriza fa sapere che non bastano le parole, ci vogliono impegni assai più concreti, perché il tempo stringe. E che comunque anche sul piano delle parole sono molto più decise e incisive quelle concordate qualche tempo fa fra il premier portoghese Antonio Costa e lo stesso Tsipras, nettamente contro le politiche di austerity.

Vedremo nelle prossime ore se queste prese di distanza dalla linea più aggressiva prenderanno reale consistenza o meno o se si tratterà del solito tragico gioco delle parti. Intanto fa bene il governo greco a sfruttare ogni spazio e ogni contraddizione che si possa aprire nel fronte di coloro che vorrebbero la bancarotta della Grecia e la sua cacciata dall’Eurozona, quindi dalla Ue.

Certo che è evidente come non mai la diversità di trattamento cui è sottoposto il paese ellenico rispetto al Regno Unito. La paura di un Brexit ha subito indotto le alte sfere della Ue a trovare un accordo accomodante con Cameron, sulle spalle dei diritti dei migranti, che può preludere a una revisione regressiva degli stessi Trattati, per scongiurare un esito antieuropeo del referendum di giugno in Gran Bretagna. Su cui si è speso anche Barack Obama. Due pesi due misure. La diseguaglianza sociale si fonda su quella delle scelte e dei comportamenti politici e viceversa. Ma così l’unità europea non può che implodere. E il ritorno ad un continente di piccole patrie – basta guardare agli esiti del primo turno presidenziale in Austria – si presenta come un incubo.