La Corte internazionale di giustizia ha stabilito le date delle udienze del caso Nicaragua vs Germania: appuntamento a L’Aja l’8 e il 9 aprile. Managua accusa Berlino di violare la Convenzione del 1948 sul genocidio per l’aiuto militare fornito a Israele. Dei procedimenti in corso di fronte al più alto tribunale del pianeta abbiamo parlato con Alessandra Annoni, associata di diritto internazionale all’Università di Ferrara.

Dopo l’iniziativa sudafricana, il Nicaragua chiama in causa la Germania. Azioni simboliche o pratiche?

Il caso del Nicaragua contro la Germania è un procedimento distinto rispetto a quello del Sudafrica: mira ad accertare la responsabilità tedesche nella mancata prevenzione di un genocidio a Gaza. Berlino non ha dato attuazione all’obbligo previsto dal primo articolo comune alle convenzioni di Ginevra: assicurare il rispetto delle norme di diritto internazionale umanitario. Il caso si basa sulla fornitura di armi a Israele pur sapendo che vengono utilizzate per compiere atti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali e del diritto umanitario e sulla sospensione dei finanziamenti a quella che è di fatto l’unica agenzia in grado di assicurare i bisogni primari della popolazione: sospendendo i finanziamenti a Unrwa, Berlino impedisce di assicurare quei bisogni. È interessante: le stesse accuse potrebbero essere mosse ad altri Stati, compresa l’Italia.

Il 26 gennaio la Corte internazionale ha concesso un mese a Israele per mettere in pratica sei misure provvisorie. Quel mese è scaduto da settimane. Qual è ora l’iter?

Israele ha consegnato un rapporto in cui spiega come avrebbe rispettato gli ordini della Corte. Il rapporto è stato visionato dalla controparte, i rappresentanti del Sudafrica. Non è un rapporto pubblico e non è detto lo diventi. La Corte potrà eventualmente stabilire se sono necessarie ulteriori misure o se reiterare quelle esistenti. Che sono vincolanti: lo Stato che non le rispetta non solo non sta cooperando con la Corte ma sta violando un obbligo. Il Consiglio di sicurezza potrebbe dunque intervenire ma il problema resta il meccanismo di voto: l’adozione di qualsiasi misura, che non sia meramente procedurale, richiede un voto all’unanimità. Gli Stati uniti hanno sempre posto il veto, verosimilmente accadrebbe la stessa cosa.

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L’Assemblea generale può intervenire per superare il veto?

Esiste un meccanismo che permette all’Assemblea generale di discutere questioni sulle quali il Consiglio di sicurezza non riesce ad adottare risoluzioni a causa del veto di uno o più membri permanenti. Può però solo adottare raccomandazioni, non misure vincolanti. Questi meccanismi sono stati pensati con la Carta delle Nazioni Unite dopo la fine della seconda guerra mondiale, oggi sono poteri antistorici. Da tempo si discute di modificare la Carta, compreso il meccanismo di voto in seno al Consiglio di sicurezza. Il problema è trovare l’accordo tra gli Stati: i membri permanenti non sono disposti a cedere il potere di veto. Il CdS dovrebbe riformare se stesso.

Intanto a Rafah cresce la paura per un’operazione terrestre. Si verificherà un nuovo sfollamento di massa?

Quasi tutta la popolazione di Gaza è concentrata a sud e Israele minaccia un’operazione di terra su Rafah. Molti dicono che, arrivati a questo punto, l’unica soluzione è evacuare le persone, altrimenti andrebbero incontro a morte certa. A questa situazione però si è arrivati tramite pratiche precedenti e ora si cerca di giustificarla: evacuare i palestinesi come unico modo per tutelarli. La pulizia etnica viene spacciata come unico modo per evitare un genocidio. Ma per il diritto internazionale non si può evitare un crimine di guerra commettendone un altro.

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Si può parlare già di pulizia etnica con lo sfollamento di massa da nord a sud?

Spostare la popolazione da una parte all’altra del territorio occupato di per sé non è pulizia etnica se lo si fa per svolgere operazioni militari e se si permette alle persone di ritornare nelle loro case. I fatti però dimostrano che anche il sud non è sicuro: non si tratta di uno spostamento per tutelare i civili.

Nell’offensiva di Gaza non c’è diritto alla fuga: chi vuole scappare non può farlo se non pagando.

Il diritto alla fuga non è un diritto in sé, previsto dal diritto internazionale. Esiste il diritto dei civili di non essere oggetto di attacco. Israele gioca sul fatto che, essendo Gaza un territorio altamente popolato e in cui i gruppi armati sono mescolati alla popolazione civile, è estremamente difficile distinguere tra civili e combattenti. È la motivazione che Israele dà anche per l’alto numero di morti tra i civili. In una situazione come questa il modo migliore per garantire il diritto alla sicurezza potrebbe essere prevedere zone protette dove le parti concordano di non svolgere operazioni militari. Ma nessun piano di questo tipo è stato mai discusso. Gaza è piccola, ma non così piccola da non poter immaginare zone sicure. Tutti questi tasselli messi insieme rendono difficile non vedere che il disegno è un altro. Nel momento in cui analizziamo i singoli attacchi, l’attacco a un ospedale, a una scuola, la singola strage, l’ordine di evacuazione violato, come normalmente si fa in caso di conflitto armato alla luce dei principi di distinzione, proporzionalità e precauzione, perdiamo il quadro generale. Se mettiamo i tasselli insieme, sistema sanitario, fame, sfollamenti da nord a sud, e se si uniscono alle dichiarazioni ufficiali, emerge un caso di genocidio da manuale. I giuristi lo identificano come un testbook case of genocide.