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Sono molte le ombre che si muovono attorno al brutale omicidio di Giulio Regeni: grosse falle e palesi contraddizioni animano versioni che si inseguono fra le sponde del Mediterraneo, della Manica e dell’Atlantico. È plausibile che il regime egiziano sappia e si siano messe in moto macchine che, gettando fumo e producendo tracciati inestricabili, preparino una versione più o meno di comodo.

Anche se è chiaro a tutte le diplomazie che una linea rossa è stata varcata, e che i tentativi di depistaggio abbondano, né alla Farnesina né tanto meno a Bruxelles qualcuno ha intenzione di alzare la posta con toni ultimativi.

Così, nell’incapacità e nell’impossibilità di mobilitare le categorie del politico, ecco che proliferano le tesi del complotto. Tutto questo dovrebbe indurre ad attenersi a ciò che sappiamo, e di cui abbiamo evidenza: ciò che Giulio stava facendo, i numeri di desaparecidos in Egitto, le vicende di altri stranieri massacrati in carcere, le firme lasciate sul corpo, le petizioni di accademici e cittadini – in Italia come in Inghilterra, perché della vicenda se ne occupino i parlamenti.

Al contrario, ecco che proliferano – diffuse artatamente, spesso enunciate fra le righe – le tesi complottarde, il tutto – si noti – rigorosamente in assenza di prove o anche solo di indizi, e in aperta contraddizione con quanto sostiene la stessa famiglia.

I primi corvi hanno spiccato il volo subito, appena ritrovato il corpo, sui quotidiani della destra, che ironizzavano sul fatto che Giulio avesse mandato articoli al manifesto: Giulio era una spia dei servizi italiani. Al di là della speculazione, resta infatti intatta, e nemmeno troppo implicita, la retorica del «se l’è andata a cercare» – prevalsa proprio perché Giulio, contrariamente a quanto si sbandiera, non era affatto «uno di noi»: egli evidentemente non pensava, come a lungo sbandierato dal coro mediatico, che al-Sisi è comunque il meglio che l’Egitto possa produrre per la «nostra sicurezza».

E del resto, anche oggi sono tutto sommato poche le voci indignate davanti a Edward Luttwak che si affaccia sui teleschermi per dire di lasciar perdere, che «magari l’ha ucciso il suo amante», o davanti agli analisti che invitano a «turarsi il naso».

La seconda tesi riguarda le infiltrazioni del terrorismo islamista negli apparati di sicurezza egiziani, con scopi di provocazione e discredito, in cui per «terrorismo islamista» si intende la Fratellanza Musulmana.

Va ricordato, a tale proposito, che i Fratelli Musulmani, pur essendosi distinti per incapacità di governare il paese tra il 2012 e il 2013, hanno pur sempre prodotto il primo parlamento e il primo presidente democraticamente eletto dell’Egitto repubblicano.

La loro categorizzazione come «gruppo terrorista» dopo il golpe militare del 2013 guidato dal generale al-Sisi, fu il frutto di pressioni strategiche di un altro grande alleato dell’Occidente, l’Arabia Saudita. La casa dei Saud ha un problema di rivalità politica e strategica con i Fratelli Musulmani, che peraltro vede – se proprio vogliamo addentrarci negli aspetti dottrinari – come «troppo liberale».

A denunciare il complotto interno non si è spinto neppure il regime, che in tal modo ammetterebbe la propria incapacità nella missione da cui deriva la propria legittimità: riportare l’ordine contro gli islamisti.

La terza teoria si è fatta strada nelle ultime ore, riguarda il complotto internazionale ai danni dell’amicizia italo-egiziana, e tira in ballo grandi interessi economici (energia) e posizionamenti strategici (Libia): tale tesi sostiene che le informazioni di cui Giulio era entrato in possesso fossero state passate al suo supervisor di Cambridge e, quindi, potrebbero essere filtrate al di fuori dell’ambito accademico. Tale tesi lascia intendere che Giulio è stato forse vittima di un complesso network di spionaggio britannico, con il quale sarebbero collusi i suoi professori di Cambridge.

Qui assistiamo a un passaggio concettuale dal «se l’è andato a cercare» al «sarà stato incastrato».

È senza dubbio utile per l’accertamento della verità non precludersi rispetto ad alcuna ipotesi. Tuttavia sarebbe rilevante misurarsi anche con qualche indizio, che non può essere cercato meramente nel silenzio che viene dal Regno unito.

Si aggiunga che tale passaggio ignora molto di come si strutturi una ricerca sul campo: il fatto che qualsiasi dottorando condivide i dati della propria ricerca con il suo supervisor, che solitamente è persona che ha cercato e voluto, costruendo una relazione di collaborazione e fiducia, e ricevendo consigli circa il metodo di osservazione più appropriato rispetto al fenomeno oggetto di studio.

È certamente plausibile che un’indagine etnografica che si avvalga del metodo dell’ osservazione partecipante abbia attirato attenzioni di aguzzini incapaci di comprendere che la ricerca delle dinamiche di cambiamento politico esista, e che questa possa essere orientata non già da una pretesa «neutralità del sapere», ma da un genuino impegno intellettuale a facilitare prassi emancipatorie.

È sorprendente, però, che questa ignoranza affligga anche i giornalisti nostrani, che evidentemente sono pronti a far slittare allusivamente la penna sul concetto di «ricercatore embedded», e dunque a vedere una spia, una manipolazione o un «giovane ignaro» dietro ogni dottorando e ricercatore che lavora sul campo in contesti sensibili, scambiando informazioni, collaborando con consulenze e giornali.

Attenzione: i ricercatori in giro sono tanti e leggono in questi tragici eventi un messaggio anche rispetto al loro lavoro: quello su cui si dovrebbe fondare l’eccellenza della nostra famosa knowledge society.

Senz’altro è importante che l’inchiesta proceda senza escludere nessun allargamento di campo: sarebbe altrettanto importante farlo senza disconoscere alla vittima il proprio ruolo e il proprio intendimento, rappresentandolo come un burattino sprovveduto.

Le teorie del complotto servono in genere a complicare un quadro semplice per gettare fumo su ciò che pare ovvio a tutti, magari in vista di un qualche accomodamento semi-assolutorio.

La realtà, nella maggior parte dei casi, disarma proprio per la sua banalità.

Come ha fatto notare Khaled Fahmy, l’Egitto di oggi, e in particolar modo quello del 25 gennaio, attraversa una fase di paranoia senza precedenti, che potrebbe facilmente aver spinto le catene di comando oltre punti di non ritorno.

Resta il fatto che il corpo morto di Giulio ha gettato moltissima – troppa – luce su come la sicurezza venga mantenuta in Egitto: l’unica cosa sicura è il regime politico in cui la vicenda si è svolta e il danno «collaterale» problematico per il Cairo quanto per Roma.

Qui entrano in gioco gli interessi delle altre potenze, gli Stati uniti in primis.

Molti si sono domandati come mai il New York Times sia entrato nella vicenda con rivelazioni poi apparse poco o per nulla solide. Molti però hanno dimenticato anche che il New York Times fu l’unico giornale globale a pubblicare in prima pagina la foto della militante socialista Shaima al Sabbagh morente fra le braccia di un compagno, colpita alle spalle da un fucile di un poliziotto mentre andava a depositare una corona di fiori in memoria della rivoluzione del 15 gennaio.

I grandi media italiani pubblicarono poco o niente, salvo poi oggi – nel pieno del «caso Regeni» coprire l’assoluzione del poliziotto con vergognosi titoli della serie «il video che commosse il mondo».

Le geografie territoriali o sociali della sicurezza e dell’insicurezza coincidono, curiosamente, con quelle della protezione degli affari, anche in contesti di estrema violenza.

I miti della protezione nazionale, della divisione tra «Occidente sicuro e democratico» e «Oriente insicuro e dispotico», tra la sponda settentrionale e quella meridionale del Mediterraneo, sono un palliativo che devia costantemente l’attenzione dalla realtà dei fatti.

E qui arriviamo all’ultima tesi complottarda diffusa in queste ore, quella degna di un regime che incrimina le vittime che denunciano la repressione: Giulio è stato ucciso da qualche sindacalista o oppositore che lo ha ritenuto una spia, un collaborazionista.

Ora, tutto in teoria è possibile, ma forse si potrebbe cominciare col riconoscere perché Giulio era lì, a studiare chi rischia di scomparire in un carcere dal quale non riemergerà nemmeno il corpo.

Forse varrebbe la pena di chiedere quanto ci interessa davvero coltivare verità e complessità, in un’era in cui la pratica sindacale sul posto di lavoro, la resistenza quotidiana ad espulsioni e sfruttamento – che in Egitto Giulio sapeva essere il centro nevralgico di una dinamica di resistenza e cambiamento – ha finito per essere equiparata tout court a un fardello che ritarda affari, politica e affari della politica.

In una parola, un ostacolo alle «riforme» che ci aspettiamo l’Egitto introduca e subito.