Lo aspettavano da 8 anni e 17 giorni e alla fine il momento è arrivato. I genitori di Giulio Regeni, Paola Deffendi e Claudio Regeni, hanno finalmente potuto assistere all’inizio del processo a carico dei quattro 007 egiziani imputati del sequestro, delle torture e dell’omicidio del ricercatore di Fiumicello, trovato morto il 3 febbraio 2016 sul ciglio dell’autostrada che collega Alessandria al Cairo.

L’udienza si è aperta ieri mattina presso la prima Corte d’Assise di Roma, a piazzale Clodio, dove si sono radunati all’esterno attivisti e giornalisti per tornare a invocare uno slogan divenuto tristemente noto: «Verità e giustizia».

NEL CORSO di questa prima udienza sono state sollevate le questioni preliminari: gli avvocati della difesa hanno contestato «l’indeterminatezza del capo di imputazione» e «il difetto di giurisdizione» con l’obiettivo di far proclamare nullo il decreto che dispone il giudizio. Istanza su cui ha chiesto il rigetto la Procura di Roma, rappresentata dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, il quale ha ribadito come in passato già altri giudici si siano espressi, respingendole.

Sulle modalità di identificazione dei quattro imputati Colaiocco ha chiarito che basta una foto: «Quel che conta non è la conoscenza delle generalità, ma la possibilità che il detenuto possa essere identificato in sicurezza per l’esecuzione della pena, come avvenne (per un cittadino afghano) che era stato identificato non con le sue generalità, ma con una fotografia».

In tribunale, grandi assenti i quattro funzionari della National Security Agency: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Il governo del presidente Abdelfattah al-Sisi non ha mai voluto collaborare con la giustizia italiana, che si è arenata sulla notifica del rinvio a giudizio.

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A sbloccare l’impasse e l’ostruzionismo del Cairo a non voler comunicare il domicilio degli agenti è intervenuta mesi fa la Consulta: ha stabilito che, nel caso di funzionari pubblici accusati di torture, può essere ritenuta valida come notifica del procedimento il semplice fatto che gli imputati siano a conoscenza dell’esistenza del procedimento stesso. Un fatto che, hanno assicurato, è stato accertato.

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La prossima udienza è fissata per il 18 marzo. «Finalmente speriamo che il processo possa partire – il commento a caldo di Alessandra Ballerini, la legale dei Regeni – Sono state sollevate le questioni preliminari che erano già stata rigettate in tutte le altre aule di giustizia: speriamo, dopo la decisione della Consulta, che rafforza molto la nostra posizione, di potere avere un processo contro chi ha fatto tutto il male del mondo a Giulio».

IL 27ENNE venne definito «irriconoscibile» dalla madre al momento dell’identificazione a causa della gravità delle violenze subite da parte dei suoi torturatori, che hanno infierito in modo particolarmente crudele per giorni. La vicenda ha aperto una spaccatura con l’Italia, che ritirò il suo ambasciatore (per poi rinviarlo) ma non ha poi posto mai fine ad accordi di tipo economico-commerciale, in particolare in ambito energetico e militare.

Oggi i rapporti con l’Egitto tornano d’attualità per via del ruolo che Il Cairo gioca nella guerra su Gaza: «Il processo Regeni sta andando avanti, ne siamo lieti, va accertata la verità e colpiti i colpevoli, ma questo non ha nulla a che vedere con quello che accade in Israele, nella Striscia di Gaza», ha detto il vicepremier e ministro degli esteri Antonio Tajani nel pomeriggio, a margine di un altro evento. «L’Egitto – ha aggiunto – è un interlocutore importante, serve fare un lavoro positivo con questo paese per tutti i palestinesi che escono dalla Striscia di Gaza, se vogliamo salvare vite umane».

Più dura la segretaria del Pd Elly Schlein: «Accanto alla scorta mediatica per Giulio bisogna continuare a insistere, perché in questi anni c’è stata una chiara volontà da parte del governo egiziano di non collaborare, di depistare e di cercare di evitare in tutti i modi che questo processo si tenesse». Quindi ha fatto appello affinché alla sbarra finiscano un giorno non solo gli esecutori ma anche i mandanti: «Non ci basta una mezza verità».