Sono a Roma da ieri sera, i due magistrati e i quattro funzionari di polizia egiziani, con il loro carico di documenti raccolti durante le indagini sull’omicidio di Giulio Regeni. Hanno viaggiato con un volo Alitalia, accompagnati da un inquirente italiano, e da questa mattina alle 10, per due giorni, nella Scuola di polizia di via Guido Reni si siederanno attorno a un tavolo assieme al capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone, al pm Sergio Colaiocco che coordina le indagini italiane, agli uomini del Ros e dello Sco che hanno stanziato per due mesi al Cairo. Con loro questa mattina ci sarà anche il professor Vittorio Fineschi che ha diretto l’autopsia eseguita a Roma.

Ma che non sarà l’ora X per verificare il «cambio di marcia» nella reale disponibilità alla collaborazione che il ministro Gentiloni ha auspicato, minacciando in caso contrario «misure adeguate e necessarie» da parte dell’Italia, lo si capisce dal fatto che il dossier di duemila pagine che dovrebbe contenere, secondo quanto anticipato dal regime egiziano, anche un esame compiuto su 200 persone di diverse nazionalità che avevano rapporti con la vittima, «è nella maggior parte in arabo egiziano, e ci vorrà parecchio tempo per tradurlo accuratamente», come conferma il senatore dem Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani.

Una prova del nove, però, sarà possibile fin da subito: basterà verificare se mai il faldone dovesse contenere anche il nome prescelto da «sacrificare» per chiudere il caso, come sostenevano ieri alcune indiscrezioni giornalistiche che indicavano il generale Khaled Shalaby, capo della polizia di Giza, già condannato nel 2003 per tortura e morte del torturato (pena sospesa e promozione nel 2015), responsabile delle prime false piste fatte trapelare subito dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni.

A quanto si apprende, sarebbe cambiata all’ultimo momento, la formazione del team egiziano capitanato dal procuratore generale aggiunto Mostafa Soliman: con lui ci sarà il segretario del procuratore generale Mohamed Hamdy, il responsabile della sicurezza nazionale Adel Gaffar, il «comandante» Mostafa Meabed, il generale Alaa Azmi, vice direttore delle indagini criminali di Giza, e il funzionario di polizia Ahmed Aziz, mentre non sarà presente il brigadiere generale Alal Abdel Megid dei servizi centrali della polizia egiziana. Da loro la procura di Roma si aspetta di ottenere finalmente video, foto, verbali, testimonianze, esame autoptico completo, dati delle celle telefoniche, e soprattutto spiegazioni plausibili sul ritrovamento dei documenti di Giulio rispuntati il 24 marzo in un covo della banda criminale sterminata dalla polizia egiziana.

Nessun credito invece alla “nuova” pista, plausibile ma non convincente, ricostruita ieri da La Repubblica sulla base di email anonime ricevute dal quotidiano romano. Una ricostruzione delle ultime ore di Regeni ricca di particolari sulle torture inflitte al giovane e che accusa direttamente il generale Shalabi di aver dato l’ordine si sequestrare il ricercatore friulano, dopo averlo messo sotto controllo. Fu lui, secondo l’«Anonimo», con il consenso del ministro dell’Interno Ghaffar, ad autorizzare la tortura di Giulio per «conoscere la rete dei suoi contatti con i leader dei lavoratori egiziani e quali iniziative stessero preparando». Dopo i primi tre giorni di sevizie ad opera dei servizi di sicurezza, secondo l’«Anonimo», sarebbe stato addirittura lo stesso Al Sisi a disporre «l’ordine di trasferimento dello studente in una sede dei Servizi segreti militari», dove il supplizio sarebbe poi finito con la morte.

Per gli inquirenti italiani, la mail, scritta in arabo e in inglese, «non ha nessuna rilevanza giudiziaria» e «non avrà rilievo diretto né indiretto nelle indagini» perché «si tratta di un anonimo, uno dei tanti in casi, come questo, di forte risonanza mediatica». La ricostruzione pubblicata da Repubblica (non nuova, circolava già in rete), in realtà, secondo fonti vicine alla procura di Roma interpellate dal manifesto, rivela molti dettagli delle lesioni riscontrate sul corpo di Regeni solo dall’autopsia italiana, il cui referto di 233 pagine sarà esposto questa mattina, insieme alle conclusioni tratte dagli inquirenti romani, al team egiziano. Tracce di ustioni sul collo (non necessariamente sigarette), lesioni da taglio sul corpo, fratture dei piedi, scariche elettriche (non sempre però lasciano tracce) e asportazione dei lobi delle orecchie (eseguita dai medici legali al Cairo), erano dettagli in parte già noti, in ogni caso conosciuti da chiunque avesse accesso all’esame autoptico eseguito al Policlinico Umberto I.

Mezze verità, fumo negli occhi. Staremo a vedere, se la nebbia si diraderà un po’ oggi. Il premier Matteo Renzi ieri da Napoli, partecipando ad un forum de Il Mattino, ha ribadito: «Abbiamo scelto di far lavorare insieme i magistrati di Italia ed Egitto e siamo impegnati a che su Regeni non sia una verità di comodo ma la verità. Aspettiamo che i magistrati facciano i loro incontri, noi siamo pronti a seguire quel lavoro con grandissima determinazione. Nessun tentativo di svicolare rispetto alla verità sarà accolto da nessuna parte». La «verità vera» è «anche nell’interesse del governo egiziano».