A giudicare dal panorama letterario e dalle retrospettive appena conclusesi alla Filmothèque du Quartier Latin di Parigi e al Bergamo Film Meeting, c’è un rinnovato interesse nei confronti del cinema di Éric Rohmer. I suoi film sono oggi fonte di ispirazione diretta per molti cineasti e l’onda lunga del suo modo di pensare il cinema incide profondamente su autori culturalmente lontani (coreani, giapponesi, argentini), proseguendo una linea vitale anche in Francia – nelle opere ad esempio di Emmanuel Mouret e Mia Hansen-Løve, per citare solo due tra i nomi più noti.

Ad accrescere la bibliografia rohmeriana alcuni contributi pubblicati di recente in Francia e in Spagna si aggiungono a quelli già importanti degli anni passati: su tutti il bellissimo Contes des mille et un Rohmer (2020) di Françoise Etchegaray, sua fedele produttrice e assistente per quasi trent’anni, che nei giorni scorsi era in Italia per dialogare con il critico cinematografico Fabio Ferzetti e raccontare al pubblico presente al festival bergamasco alcune peculiarità del lavoro di uno dei maestri della nouvelle vague.

Proprio sul lavoro si concentra l’inchiesta del giornalista Victorien Daoût dal titolo Au travail avec Éric Rohmer, edita da Capricci qualche settimana fa: una ricerca fatta di testimonianze di cinquanta collaboratrici e collaboratori del regista francese che restituiscono l’immagine di un metodo e di una personalità fuori dal comune. Questo libro di interviste collezionate tra il 2021 e il 2023 è prezioso non soltanto per la generazione alla quale appartiene il curatore – nato alla fine degli anni Novanta e che dunque non ha potuto vedere i film del regista al momento della loro uscita – ma per chiunque abbia il desiderio di trovare indizi e conoscere più in profondità il territorio del mistero Rohmer.

Diviso in sei sezioni (recitazione, fotografia, scene e costumi, montaggio, musica e suono, produzione e distribuzione), il ritratto che viene fuori dai diversi racconti è quello (ampiamente noto) di un regista colto, appassionato e spiritoso ma anche quello di uomo calmo e nevrotico, alto e impacciato, caotico nel suo rigore, discreto nel suo essere elettrico. Alcune esperienze ricorrenti segnano i rapporti tra Rohmer e gli intervistati: il momento del tè, le discussioni personali che il regista amava avere con le persone con cui collaborava e nel corso delle quali si parlava di tutto tranne che del film. Attrici e attori scoprivano spesso solo più tardi che quelle conversazioni sarebbero state linfa indispensabile per la sceneggiatura, e che non necessariamente ciò di cui avevano parlato sarebbe stato attribuito al loro o a un unico personaggio – a riprova della grande complessità degli esseri umani che Rohmer non ha mai cessato di voler esplorare.

E ritorna più volte anche il racconto dell’atteggiamento pragmatico e spartano che caratterizzava le riprese: tutti dormivano nello stesso appartamento per condividere uno spirito di gruppo e, soprattutto, per rendere economicamente sostenibili i vari progetti. Il regista Rohmer non è infatti separabile dall’inventore di un sistema di produzione che lo avrebbe portato a concepire i suoi cicli di film (Racconti morali, Commedie e proverbi, Racconti delle quattro stagioni) e gli altri progetti che era solito alternare ai cicli, come a rivendicare un’ostinata e assoluta libertà realizzativa il cui esempio più celebre è rappresentato probabilmente da Il raggio verde, film girato quasi di nascosto, in 16mm, senza sceneggiatura e con un’équipe ridottissima, che gli valse il Leone d’Oro al festival di Venezia nel 1986.

Uomo misterioso, cultore del segreto, perennemente innamorato della gioventù, l’immagine di Rohmer che emerge dal libro è quella di un regista aperto alle suggestioni e al confronto. Sempre pronto alla sperimentazione – gli piaceva lavorare con persone senza esperienza, in tutti i settori, perché non fossero plagiate da tic professionali –, manteneva comunque un controllo assoluto sulle riprese, condizione indispensabile per consentire all’imprevisto di fare la sua comparsa. Era solito dire che tutto è fortuito, tranne il caso. E la fede che aveva nei confronti del cinema era tale da fargli mettere l’arte al di sopra della vita stessa secondo Melvil Poupaud, che fu giovane protagonista del suo Conte d’été. Dalle testimonianze raccolte spiccano allora alcuni aneddoti, come il panico dei direttori della fotografia quando Rohmer girava le scene senza guardare quanto succedeva sul set e limitandosi ad ascoltare il sonoro (così racconta Renato Berta a proposito di Les nuits de la pleine lune), cui vanno accostate le pratiche riferite da Françoise Etchegaray di un Rohmer «regista del muto»: finite le riprese e il montaggio era solito infatti guardare il film senza sonoro per capire se fosse chiaro e comprensibile anche solo a partire dalla mise en scène e dai raccordi tra le inquadrature, e poi riguardarlo in moviola al contrario, partendo dalla fine e a velocità accelerata, per verificare ancora una volta la tenuta armonica del racconto e delle varie sequenze.

Il pregio delle interviste di Daoût consiste nel non limitarsi a chiedere informazioni sul regista ma nel prendersi rohmerianamente il tempo e il piacere di dialogare liberamente di argomenti disparati, consentendo a chi legge di farsi un’idea indiretta e più ricca della figura di Rohmer e delle ragioni per le quali tenesse a coinvolgere alcune persone nel suo lavoro. In questo modo non ci si limita ad apprendere la nota fascinazione del regista nei confronti delle attrici, ma si ottiene anche la consapevolezza che la scelta di certi protagonisti rispondeva talvolta a ragioni extra-cinematografiche – come è forse il caso di Mathieu Carrière, scelto tra gli attori di La femme de l’aviateur anche in quanto appassionato ed esperto dell’opera di Heinrich von Kleist.

Ed è Kleist e l’adattamento a teatro della sua Käthchen di Heilbronn a segnare il battesimo artistico di Rosette e l’inizio del suo rapporto privilegiato con Éric Rohmer. Di questo spettacolo a suo modo pionieristico – nell’utilizzo del cinema all’interno di una pièce teatrale –, del suo fallimento e del conseguente festeggiamento in discoteca al ritmo di Psycho Killer dei Talking Heads – con un Rohmer danzante tra Arielle Dombasle, Pascale Ogier e Pascal Greggory – racconta la stessa Rosette in un breve libro uscito a gennaio e intitolato Éric. L’ami Rohmer (Les Éditions de Paris). Rosette è tra le attrici di culto di molti film del regista, nonché la protagonista dello straordinario videoclip della canzone Bois ton café (lo si può vedere su YouTube) e della serie Rosette par Rosette, cui Rohmer diede una mano significativa. Anche in questo libro viene fuori un ritratto del metodo di Rohmer, e in particolare del lento approccio di seduzione e avvicinamento, di innamoramento e coinvolgimento di alcune delle attrici che avrebbero rappresentato le grandi amicizie della sua vita, le presenze costanti della sua opera.

Alcune di esse sono entrate a far parte della storia del cinema, tra cui la figura tragica di Pascale Ogier («la preferita di Rohmer», scrive Rosette), morta a soli 26 anni, ma anche quelle di Haydée Politoff, Françoise Fabian, Amanda Langlet, Arielle Dombasle, Béatrice Romand, Marie Rivière. Non tutte sono presenti nel libro di Daoût, ma in almeno uno dei casi è possibile in qualche modo colmare l’assenza. A consentirlo è il più anomalo dei libri rohmeriani recenti, pubblicato in Spagna nel 2022 e intitolato Los naipes de Delphine. L’autrice, Esther Ramón Bonifacio, offre di Rohmer un’ulteriore testimonianza indiretta ed esplicitamente poetica: Delphine è il nome della protagonista de Il raggio verde interpretata da Marie Rivière, e le carte da gioco che ritrova per strada nel corso della sua fuga diventano nelle pagine della scrittrice spagnola un espediente per dare vita a una ricerca sull’identità che caratterizza i suoi tanti personaggi, fino a disfare il concetto stesso di io. Un gioco sull’autofinzione che mostra un’altra possibilità di traduzione in linguaggio non cinematografico di figure e tematiche direttamente ispirate dall’opera di Rohmer. Un libro uscito nel medesimo anno in cui un altro progetto di nazionalità spagnola aveva fatto parlare di sé: l’esordio cinematografico della regista Zaida Carmona, che con il film La amiga de mi amiga omaggiava sin dal titolo il cinema di Rohmer, trascinando stavolta il suo universo nella scena lesbica della Barcellona contemporanea. Una commedia cinefila e indipendente, scritta, diretta e interpretata dall’autrice, ennesima rappresentante delle continue influenze e del fascino che il cinema del grand Momo, con tutta evidenza, non smette di continuare a esercitare.