Quello che al-Sisi ha plasmato negli ultimi tre anni di regime militare è un paese disfunzionale e contraddittorio. Le debolezze della vecchia dittatura si ripetono uguali a se stesse e si ampliano: disuguaglianze socio-economiche, repressione delle opposizioni, alleanze forzate, diktat esterni. Il Cairo di al-Sisi non è tornato a fare da guida al mondo arabo, ma va a rimorchio.

Domenica il Consiglio Nazionale di Difesa ha esteso la partecipazione dell’esercito egiziano alla coalizione sunnita anti-Houthi in Yemen, creatura saudita che devasta in silenzio il paese più povero del Golfo.

Pochi giorni prima, il 16 gennaio, l’Alta Corte amministrativa rigettava in via definitiva la cessione delle isole Tiran e Sanafir a Riyadh (regalo del presidente golpista a re Salman), sconfessando l’impalcatura delle ultime ondate repressive: nella prima vera sollevazione contro al-Sisi migliaia di persone sono state arrestate per aver difeso Tiran e Sanafir, semplici cittadini e attivisti, mentre il sindacato della stampa subiva un attacco senza precedenti nella storia.

Intanto il 18 gennaio il capo della missione in Egitto del Fondo Monetario Internazionale, Chris Javis, elencava i primi risultati dell’accordo tra Fmi e Il Cairo e delle riforme attuate nel paese per assicurarsi un prestito triennale di 12 miliardi di dollari.

Facendo riferimento alla pericolosa fluttuazione della sterlina egiziana che ha impoverito le classi medio-basse, Javis ha parlato di progresso positivo e di riforme che porteranno a breve stabilità macroeconomica.

Parole asettiche che nulla hanno a che vedere con la realtà dei fatti, un mix di miseria crescente e annullamento del potere d’acquisto, un’inflazione alle stelle e un tasso di povertà che si moltiplica. I tre eventi insieme – prosieguo della guerra in Yemen, bocciatura della cessione delle due isole e dichiarazioni del gigante finanziario – danno il quadro dell’Egitto che si affaccia al 2017.

Un paese impoverito e soffocato dalla repressione, in cui la macchina statale (l’intreccio disfunzionale di potere economico e politico in mano a forze armate, governo militare e servizi segreti) usa la violenza strutturale e istituzionalizzata per mettere una pezza alla propria debolezza.

A sostenere gli sforzi di al-Sisi pensano gli alleati storici che continuano a garantire rapporti economici e politici al paese, necessario ad affrontare il flusso di rifugiati e migranti verso l’Europa, la crisi libica e la guerra al terrorismo islamista.

Nessuno pare guardare alla realtà egiziana a sei anni da piazza Tahrir. Eppure il quadro è inclemente. Basta dare un occhiata ai numeri, che seppur valori freddi, definiscono il perimetro d’azione del regime. Tra l’agosto 2015 e l’agosto 2016 l’Egyptian Committee for Rights and Freedom (consulente della famiglia Regeni) ha registrato almeno 912 casi di sparizioni forzate.

Tra il gennaio e l’ottobre 2016, il Nadeem Center (dagli anni ’90 impegnato nella tutela delle vittime di abusi da parte dello Stato) ha documentato 433 casi di torture in prigioni e caserme. Ad oggi, scrive il Committee to Protect Journalists, sono 30 i giornalisti dietro le sbarre, con l’Egitto al terzo posto della classifica dopo Cina e Turchia.

Oltre 60mila i prigionieri politici su 106mila detenuti, più del 56% del totale secondo i dati dell’Anhri (Arabic Network for Human Right Information); sono reclusi in 504 centri detentivi (erano 485 prima del 2011). Infine, dal luglio 2013 – data del golpe di al-Sisi – a metà 2016 si sono registrati 2.978 omicidi extragiudiziali, secondo i calcoli dell’Ecrf: 2.581 durante proteste, 91 per tortura, 180 per mancanza di assistenza medica in prigione, 17 in attacchi ai campus universitari e 7 per pena di morte.

Così la paranoia del complotto – che passa per le psicotiche accuse a Giulio Regeni di essere spia straniera o pedina del movimento nemico dei Fratelli Musulmani – permea la vita quotidiana, politica, socio-economica del popolo egiziano, costretto in una morsa di repressione e povertà. Perché la natura disfunzionale del governo golpista si traduce anche in una crisi economica di ampissime proporzioni.

Con la sterlina in caduta libera – da 8,83 sul dollaro a 18 – a dicembre il tasso di inflazione è schizzato al 24,3% dal già preoccupante 19,4% di novembre. I beni più colpiti sono quelli di prima necessità: cibo e bevande (+28,3%), salute e medicinali (+32,9%) e trasporti (+23,2%). E quando si parla di beni alimentari si fa riferimento a quelli basilari: il pane e i cereali costano il 54,1% in più, il riso il 77% e la farina quasi il 53%.

Il tutto accompagnato dal taglio radicale dei sussidi statali, la riduzione di numero e stipendi dei dipendenti pubblici, l’introduzione dell’Iva. Queste le riforme chieste dall’Fmi mentre nel paese non si produce quasi più per i costi troppo elevati e il settore turistico è piombato ai minimi storici.