Le primarie forse più anomale della moderna storia d’America sono finite con un mese di anticipo. In una sera di maggio in Indiana è accaduto l’impensabile, o almeno quanto nessuno avrebbe potuto azzardare solo pochi mesi fa. Il partito di Lincoln che è poi diventato quello del capitale e della destra conservatrice americana per oltre un secolo, è stato espugnato da una rivolta populista divampata attorno a un palazzinaro, tracotante star di reality televisivi. Una figura post berlusconiana che ha improbabilmente scalato le vette di una politica in preda a una profonda crisi di identità, un establishment di partito che gira a vuoto, che negli anni Obama pur con la maggioranza nel congresso ha saputo esprimere solo uno sterile, ottuso ostruzionismo e seminare esasperazione fra i propri elettori.

Dopo l’ennesima batosta, Ted Cruz, ultimo plausibile avversario di Trump e superstite di un novero che a suo tempo comprendeva 17 pretendenti, ha gettato la spugna. Il suo annuncio a sorpresa («prendo atto che ogni residua prospettiva di successo è svanita») ha spianato la strada per l’incoronazione di Trump. Al suo forfait è seguito ieri quello, inevitabile, anche di John Kasich, inefficace paladino della vecchia guardia moderata. L’Indiana era il Fort Apache dell’ala «tradizionalista» del Gop – ultima chance per rallentare la corsa del Trump express verso l’acclamazione – ma i ribelli hanno travolto le ultime barricate. Anche se Cruz da tempo non aveva più una realistica possibilità di vittoria, il suo annuncio ha preso tutti di sorpresa, compreso Trump che ha dovuto modificare il suo discorso per elogiare «il coraggio» dell’avversario che fino a poche ore prima aveva oltraggiato in ogni modo (per ultimo insinuando che il padre di Cruz avrebbe preso parte all’assassinio di John Kennedy!). Si presumeva infatti che Cruz avrebbe intrapreso comunque un azione tattica di disturbo nei rimanenti stati con lo scopo di impedire a Trump di ottenere tutti i 1.237 delegati necessari alla nomination al primo turno, e rimettere poi in gioco la candidatura dal palco della convention a Cleveland.

Paradossalmente rischia di essere più combattuta la convention a Philadelphia, quella del partito democratico. Sanders in Indiana ha battuto Clinton e collezionato il 18mo successo delle primarie. Impossibile rimontare Hillary, ma a differenza di Cruz, Bernie rappresenta un movimento ideologico vitale, non una retroguardia calcificata. Per questo non sembra affatto pronto a chiudere la sua battaglia. Il sistema proporzionale delle primarie prevede un vincitore matematico. Ma quella di Sanders, che ha raccolto più del 40% dei consensi popolari, è una battaglia politica. La sua logica è proporzionale e mira ad includere nella piattaforma del partito la voce dell’ala progressista rivitalizzata dalla sua campagna. I suoi sostenitori rivendicano uno spazio per l’idealismo nell’ingranaggio elettorale che opera in base a calcoli strategici e l’ingegneria dei consensi a cui stanno già lavorando gli strateghi e consulenti elettorali di Clinton.

Bernie ha galvanizzato la sinistra e soprattutto i giovani, quel «futuro del paese» a cui ha fatto riferimento nel suo discorso della vittoria. Loro sono stati una componente fondamentale della Obama coalition. Per Hillary sarebbe temerario affrontare l’imprevedibile scontro frontale con Trump senza tenere conto delle istanze di questo segmento politico.

Le incognite maggiori a questo punto riguardano i repubblicani. Pochi minuti dopo il ritiro di Cruz, un tweet di Reince Preibus, presidente del comitato centrale del Gop dichiarava Trump il candidato in pectore invitando tutti i repubblicani a sostenerlo. Ma è lungi da sicuro che siano pronti a farlo i settori vicini ai suoi numerosi ex concorrenti. Non è chiaro inoltre che si allineeranno dietro a Trump i dirigenti storici del partito come Mitt Romney, John McCain o Jeb Bush che fino a ieri lo hanno apertamente vituperato. Se in definitiva lo faranno i capitalisti di Wall street e gli integralisti religiosi – fino a ieri le colonne delle coalizioni reaganiste e neocon esautorate oggi dall’orda populista aizzata da Trump?

E nel caso: basteranno gli indipendenti, gli arrabbiati e i qualunquisti motivati dal vangelo celodurista di Trump a controbilanciare le defezioni dei repubblicani «never Trump» che preferiranno astenersi piuttosto che votare per lui? D’altro canto: quanto sarà vulnerabile Clinton di fronte alla demagogia antipolitica di un avversario «asimmetrico» che opera al di fuori degli schemi e della dialettica? In un aspetto l’ex segretario di stato parte svantaggiata. Nell’anno in cui trionfa l’insofferenza contro il sistema costituito, l’esponente della casta politica è chiaramente lei. Di contro Trump, candidato di un partito che ha fatto di tutto per cercare di evitarlo, esprime la xenophobia, il risentimento razziale, l’anti intellettualismo e tutto il disagio represso che quell partito in passato ha voluto strumentalizzare.

Le elezioni presidenziali americane trascinano gli Usa verso l’ignoto e si profilano come un banco di prova dell’ondata retrograda che preme sugli argini delle democrazie occidentali. Come ha detto Elizabeth Warren: «Ciò che avverrà ora metterà alla prova il carattere di ognuno – democratico, repubblicano e indipendente. Determinerà se sapremo andare avanti come un unica nazione o se soccomberemo al narcisismo ed al dissenso di un individuo».