Sono più di vent’anni che il sociologo Farhad Khosrokhavar, intellettuale iraniano arrivato a Parigi negli anni ’70, analizza le forme di radicalizzazione politico-religiosa che spingono giovani francesi, ma anche del resto d’Europa, tra le braccia delle organizzazioni jihadiste.

Già collaboratore di Alain Touraine, ne ha ereditato la guida del Centro d’analisi e d’intervento sociologico di Parigi. Docente all’École des hautes études, Khosrokhavar è arrivato a studiare i protagonisti della jihad “made in France”, di cui è considerato uno dei massimi esperti, dopo aver affrontato ciò che lui stesso ha definito la «religiosità mortifera» emersa nello spazio di senso islamico attraverso le figure dei martiri rivoluzionari dell’Iran khomeinista.

È autore di decine di opere, tra cui L’Islam dans les prisons (Balland, 2004), Radicalisation (Maison des Sciences de l’Homme, 2014), Le jihadisme (Plon, 2015).

A partire delle biografie dei responsabili delle stragi di Parigi, si può tracciare un profilo di chi si avvicina ai gruppi jihadisti in Europa e dei motivi che stanno alla base di questa scelta?
Si può dire che esista una prima categoria composta di giovani che vivono una condizione di esclusione sociale o di emarginazione e che hanno interiorizzato un forte odio per la società, finendo per percepirsi come vittime. Ritengono di non avere un futuro all’interno del modello sociale dominante, la triade “lavoro, famiglia, piena integrazione”. Per costoro, l’adesione all’Islam radicale rappresenta un modo per sacralizzare il proprio odio e per legittimare e giustificare la propria aggressività. Tra loro emergono delle caratteristiche comuni: delle vite marginali nelle banlieue, arresti e periodi di detenzione, ed è proprio in carcere che spesso entrano in contatto con dei sedicenti predicatori che li avvicinano ad una versione integralista della religione musulmana, viaggi iniziatici, dapprima in Afghanistan, Pakistan o nello Yemen e, negli ultimi anni, soprattutto in Siria e, infine, una volontà di rottura con la società in cui sono cresciuti che si opera in nome della Guerra santa. È ad esempio questo il profilo degli autori, particolarmente giovani, delle stragi del 13 novembre, come di tutti gli attentati jihadisti commessi in Francia negli ultimi 15 anni. Questo primo gruppo di giovani provenienti dalle cité periferiche o dai quartier popolari, della Francia come del Belgio, costituiscono ormai una sorta di esercito di riserva jihadista in Europa.

Ma nel Vecchio continente è emerso anche un secondo gruppo di aspiranti terroristi. Di chi si tratta?
Sono ragazzi e ragazze che appartengono a famiglie del ceto medio e che non provano odio nei confronti della società, che vivono in buoni quartieri e che hanno la fedina penale pulita. Si tratta spesso di convertiti, persone non provenienti da famiglie o ambienti musulmani, animati piuttosto dal desiderio di sostenere i loro nuovi fratelli nella fede e da una sorta di romanticismo naif. Il loro progressivo coinvolgimento negli ambienti jihadisti corrisponde ad una specie di prova, un rito di passaggio all’età adulta per dei post-adolescenti. Tra loro non sono ancora emerse figure di rilievo coinvolte negli attentati compiuti in Europa, ma alcuni sono partiti per combattere in Siria.

Se questi sono i soggetti a cui si rivolge la propaganda jihadista, in che termini si può descrivere il loro processo di radicalizzazione?
Come dicevo, per i giovani dei ceti popolari il motore principale è rappresentato dalla trasposizione del loro odio per la società in una religiosità fanatica che gli offre la sensazione di esistere, finalmente, e di invertire i ruoli che ritengono gli siano stati imposti: da persone insignificanti si trasformano in eroi, da imputati e condannati dalla Giustizia diventano i giudici inflessibili di una società che considerano eretica e empia, da individui che ispirano il disprezzo a esseri violenti che fanno paura, da sconosciuti a personaggi di cui parlano tv e giornali. Per questi casi si parla di una percezione di sé legata ad un senso di inadeguatezza e della volontà di rompere con l’intera società. Quanto ai giovani provenienti dalle classi medie, l’influenza della rete, dei social network, dei video di propaganda postati dai gruppi estremisti e di qualche ragazzo già indottrinato in termini radicali, possono risultare determinanti nell’avvicinamento agli jihadisti. Presso costoro sembra emergere spesso anche una volontà di rottura con un mondo familiare percepito come individualista. Nelle loro scelte si scorge un rifiuto della cultura erede del Sessantotto che è stata assorbita in vario modo dai genitori: preferiscono il matrimonio tradizionale secondo le regole religiose alla convivenza, la guerra all’amore, si forgiano un’identità aderendo a gruppi o a “stati” iperepressivi, Al Qaeda prima e Daesh poi. Da questo punto di vista, le nuove forme di radicalizzazione di una parte dei giovani europei descrivono anche la de-istituzionalizzazione della vita sociale e la crescente difficoltà interiore di ragazzi la cuiadolescenza sembra prolungarsi all’infinito. La sottomissione a Dio, autorità trascendentale, può sopperire presso i più fragili la diluizione dell’autorità parentale e sociale cui si assiste.

Il sociologo Alain Touraine, con il quale lei ha lavorato a lungo, sostiene che lo jihadismo rappresenta l’anti-movimento sociale per eccellenza, l’esatto contrario di un progetto di trasformazione della società. È d’accordo?
Se per anti-movimento sociale si intende un fenomeno radicalmente anti-democratico, fondato su un’ideologia estremista e totalitaria che si basa su un rapporto fusionale tra gli adepti e le loro idee, questa mi sembra una lettura adeguata della cose. D’altro canto, però, non si può negare che lo jihadismo sia anche un fenomeno di impegno collettivo e una realtà che supera la dimensione nazionale, per certi versi una sorta di movimento sociale degenerato. Come se avessimo a che fare, con un altermondialismo dai connotati però negativi e regressivi che invece di affrontare i problemi con la forza delle idee, lo fa con la violenza e il terrorismo e soprattutto insegue l’esatto contrario della democratizzazione del mondo, dell’orizzonte della società aperta e di una convivenza tra culture e individui diversi.

A trent’anni dalla Marche pour l’égalité delle periferie e a dieci dalla grande rivolta delle banlieue, l’estendersi dello jihadismo tra un certo numero di giovani francesi traduce anche la sconfitta di una prospettiva di cambiamento?
Purtroppo sì. Il fatto che questi movimenti non abbiano ottenuto quasi nulla ha per certi versi facilitato l’opera di reclutamento dei terroristi. Anche se si deve tenere sempre presente, come si vede in queste ore a Bamako, e più in generale con lo sviluppo di Daesh in Irak e in Siria, che lo jihadismo è anche un fenomeno internazionale che ha origine nelle società arabe, esprime più di un volto e che non si alimenta soltanto della crisi delle periferie urbane d’Europa. Si tratta di qualcosa che non è in alcun modo paragonabile alla Raf o alle Brigate Rosse degli anni 70, ma che si situa alla congiunzione tra la crisi delle banlieue e le spinte fondamentaliste che attraversano da tempo le società del mondo arabo. Per essere più chiari, al malessere sociale e identitario di molti giovani europei, lo jihadismo ha proposto due invenzioni dalla portata straordinaria: la figura del neomartire, vale a dire una morte sacra che incarna una delirante ed estrema ricerca di sé e la neo-umma, il riferimento a una comunità musulmana globale che non è mai esistita storicamente ma che per questi ragazzi turbati e incerti assume i connotati di un accogliente rimedio alle loro inquietudini.