Il corpo di Giulio Regeni, giovane studente residente al Cairo per un dottorato di ricerca, è stato ritrovato in Egitto. Le autorità, come se volessero coprire la verità, hanno fornito versioni contrastanti sulla sua morte. Il procuratore ha dichiarato che il corpo recava tracce di torture, mentre il ministero dell’interno ha sostenuto che era morto per un incidente d’auto.

In Egitto, è spesso impossibile conoscere la verità e le autorità pretendono ancora che l’aereo russo che s’è schiantato in Sinai il 31 ottobre sia rimasto vittima di un guasto tecnico e non di un attentato terroristico. Menzogne che hanno spinto Mosca a interrompere da allora tutti i voli verso l’Egitto, nonostante le eccellenti relazioni che legano Abdel Fattah al-Sisi al presidente Vladimir Putin.

Regeni è scomparso il 25 gennaio, data del quinto anniversario della rivolta in Egitto. Seguiva da vicino gli avvenimenti successivi al colpo di Stato del 3 luglio 2013, e aveva anche inviato qualche articolo sotto pseudonimo per il manifesto. Quel giorno, il paese era in stato d’assedio, tanta era la paura delle autorità di vedere nuovamente la popolazione scendere in piazza.
Regeni è incappato in un controllo casuale? E’ rimasto vittima degli squadroni della morte che fanno scomparire i militanti egiziani?

E’ ancora troppo presto per dirlo, ma la sua morte ricorda all’Italia e all’Europa che ci sono ancora migliaia di prigionieri politici in Egitto, che la tortura è pratica quotidiana, che la polizia può agire in totale impunità, che si è tornati a una repressione ancora più brutale che ai tempi di Hosni Mubarak.

Una morte che torna a porre la questione della cooperazione tra Roma, Bruxelles e il Cairo. In uno strano comunicato della presidenza egiziana, che ha dato conto di una conversazione tra al-Sisi e Matteo Renzi, c’era un breve accenno alle condoglianze, ma l’essenziale riguardava la cooperazione tra i due paesi e la necessità di svilupparla. L’Italia si accinge a voltare la pagina Regeni e ad ammazzare una seconda volta lo studente calcolando la sua scomparsa tra i costi e i ricavi in nome della realpolitik?

Renzi è stato uno dei primi dirigenti europei (insieme a François Hollande) a ricevere al-Sisi dopo il suo colpo di Stato, del 3 luglio. Ha salutato il «partenariato strategico» tra l’Italia e l’Egitto. Nel 2015, ha affermato che il presidente al-Sisi era «un grande dirigente» e che l’Egitto «sarà salvato solo dalla leadership di al-Sisi» del quale si è dichiarato «fiero di essere amico». Più che mai, mentre si avvertono nuovi venti di guerra in Libia, e mentre la formazione del governo d’unità nazionale libico non sembra avere altro obiettivo che quello di giustificare un intervento internazionale, occorre interrogarsi.

Cosa andranno a fare la Francia, l’Italia, l’Unione europea in questo paese a fianco dell’Egitto? L’esperienza degli interventi stranieri come quello contro l’Iraq nel 2003 fino a quello in Libia nel 2011 hanno avuto come conseguenze solo quelle di rafforzare i gruppi più radicali della regione, di aggravarne il caos.

E pensiamo davvero che sia collaborando con il presidente al-Sisi che si stabilirà un ordine più giusto in Libia?