A ovest, le falesie del Vercors si stagliano su un cielo blu. François (1) custodisce 2.500 pecore a La Grande Cabane nei 17.000 ettari di riserva naturale degli Hauts-Plateaux. Raggiunto il passo del Fouillet, si accede a un luogo mitico per i pastori, dopo una camminata attraverso un prato di nardi (2). Un cane da pastore (3) sta finendo di divorare una pecora probabilmente uccisa da un attacco di lupi di qualche giorno prima; dieci avvoltoi girano attorno alla carcassa.

François è cordiale. Quest’uomo solido, venuto dal mare, dimostra una passione e un know-how notevoli. Ma la sua testimonianza si riempie di amarezza, che diventa collera quando tocchiamo la questione delle condizioni di ingaggio e di lavoro: «Devo andare a prendere l’acqua con i miei asini e assicurare una presenza continua all’interno del mio gregge per prevenire gli attacchi dei lupi. Questo meriterebbe almeno un po’ di considerazione».

Anche Aurore si confronta con il dilemma dei pastori del XXI secolo: vivere questo mestiere con le sue pessime condizioni o dimettersi. Ha cominciato a 18 anni e ne parla tuttora con emozione: «Quando guardo le pecore belle e in buona salute non ho voglia di andarmene». Ma l’offerta del suo ultimo datore di lavoro la fa infuriare: «Una roulotte malandata in cui piove dentro e in cui al mattino, nel mese di aprile, ci sono appena 4°C». Qualche anno fa è stata ricoverata a Nizza per un’intossicazione da monossido di carbonio avvenuta nella sua roulotte. Aspira a una maggiore dignità. Stanca del disprezzo dei propri datori di lavoro, è preoccupata dal fatto che, ogni volta che si licenzia, sempre per il rifiuto di vivere in dimore di fortuna, viene rapidamente sostituita da giovani appena usciti dalla scuola da pastori del Merle, a Salon-de-Provence, o da altre ancora.

La vita del pastore riflette le contraddizioni del nostro rapporto con la natura. Se la maggior parte di noi è sempre più attenta ai prodotti di qualità, ai bei paesaggi aperti, quindi ben tenuti, e ai sentieri per le escursioni, al tempo stesso, la società è indifferente alle condizioni di vita di chi rende possibile tutto questo. In molti si entusiasmano per il ritorno dei grandi e affascinanti predatori, si mobilitano per la difesa dell’orso o del lupo, ma non prendono in considerazione il pastore, generalmente solo e in prima linea a far fronte alle conseguenze di questo ritorno.

Un lavoro solitario e massacrante

In Francia, la pastorizia ha ancora un ruolo di primo piano nell’allevamento, in particolare per quei prodotti di qualità, come formaggi o carne con denominazione di origine protetta (Dop). Dalla primavera all’autunno, per una durata variabile a seconda delle regioni, ovini (1,5 milioni), bovini (430.000), capre e cavalli sono condotti nella natura. Più di un allevamento su cinque (60.000) dipende da sistemi agro-pastorali, che in piena stagione occupano circa 5,4 milioni di ettari (4).

Il ministero dell’agricoltura non riesce a censire con precisione il numero dei pastori in Francia, ma si stima siano un migliaio nei Pirenei, diverse centinaia nelle Alpi e nel Massiccio centrale, alcune decine nel Giura, nei Vosgi e in Corsica. La presenza di animali valorizza le risorse e i prati degli alpeggi, dei percorsi mediterranei o delle zone umide della costa atlantica, tutti paesaggi trasformati dall’uomo e dagli erbivori domestici per lunghi secoli.

In seguito alla legge pastorale del 1972, gli allevatori hanno iniziato a organizzarsi in associazioni pastorali che gestiscono collettivamente l’utilizzo dei pascoli stagionali. Queste associazioni assumono i pastori con condizioni molto precarie, nonostante le grandi responsabilità che vengono attribuite loro. Le difficoltà del mestiere sono aumentate con il ritorno dei lupi dall’Italia, a partire dal 1992, mettendo in luce la grande fragilità di chi deve rispondere a un imperativo paradossale, «proteggere l’agnello preservando il lupo», senza averne gli strumenti. Lo stato di lavoratore isolato pesa duramente, 24 ore su 24, sette giorni su sette. Così come una grande pressione psicologica grava su quanti hanno il compito di tutelare un patrimonio animale del valore di diverse centinaia di migliaia di euro.

Il pastore di pecore si alza insieme al sole per portare al pascolo il gregge, che conta mediamente tra i 1.500 e i 3.000 capi. Torna al suo chalet per preparare la cena quando la luce cala. Durante il giorno, quando gli animali si riposano, si prende cura delle pecore zoppicanti. Il sonno è breve, in piena estate: «Se gli animali non hanno bisogno di cure e i turisti non fanno abbaiare i cani, riesco a fare un riposino», racconta Serge, sessant’anni appena ma già consumato.

Negli alpeggi delle Alpi del nord in cui si produce anche il latte, il pastore si alza alle tre del mattino per mungere le vacche. La sera, Jean-Michel «non va mai a letto prima delle 22». Con humour, Patrick descrive lo stato in cui versa alcuni giorni: «Dormo in piedi e con un occhio aperto». La giornata è dedicata ad aiutare il formaggiaio e ad aprire e richiudere i recinti per i due pasti giornalieri. Il lavoro varia a seconda della specie animale, i luoghi e l’andamento della stagione. Ma il mestiere ha come comune denominatore l’isolamento, spesso la solitudine, il sole, la pioggia, il freddo, giornate di lavoro di 11 ore. Eliane, che fa la transumanza sul passo del Joly, di fronte al Monte Bianco, spiega che nel 2013 «ci sono state nevicate tutti i mesi». E con il passare degli anni, l’aggressività degli elementi atmosferici lascia il segno: «Devo indossare costantemente gli occhiali da sole», riferisce Serge, i cui occhi non tollerano più la luce intensa.

I pastori devono badare ai bisogni delle bestie e contemporaneamente preservare la ricchezza degli spazi naturali. Provvedono alla manutenzione di migliaia di ettari e producono beni materiali e immateriali. Gestiscono le greggi (custodia, controllo dello stato di salute, individuazione delle malattie, cura, mungitura), le risorse pastorali (calendario del pascolo, manutenzione dell’equipaggiamento), l’ambiente (rapporti con i turisti, con i diversi partner, attivazione di misure agro-ambientali, protezione dai predatori). L’insieme di queste esigenze probabilmente spiega l’aumento del numero di diplomati. Le donne sono ben rappresentate. In compenso, la durata media di un impiego si è abbassata a cinque anni per gli uomini e due anni per le donne. Molti abbandonano rapidamente, insoddisfatti delle condizioni di lavoro, dei bassi salari e del mancato rispetto del diritto del lavoro. «Alla fine del contratto, il mio capo si è rifiutato di liquidarmi le ferie a cui avevo diritto», racconta per esempio Pascale.

La maggioranza dei pastori è alle dipendenze di agricoltori-allevatori, che sono per lo più organizzati in associazioni pastorali. Il loro contratto di lavoro fa riferimento al contratto collettivo agricolo del dipartimento in cui esercitano. Nei casi in cui il loro contratto rispetti la norma, il salario orario è stabilito in base allo Smic (Salario minimo interprofessionale di crescita) su una base di 44 ore settimanali, pur lavorandone infinitamente di più.

La maggior parte dei contratti è a tempo determinato e ne conseguono grandi difficoltà nel conservare l’impiego, pianificare le formazioni, accedere a prestiti bancari. «Ho fatto sette stagioni consecutive nello stesso alpeggio; la mia vita familiare si organizza di conseguenza. Ma ogni anno l’associazione pastorale potrebbe annunciarmi che non rinnoverà il mio contratto. In queste condizioni, come si può pensare serenamente al futuro?», si sfoga Leïla.

I pastori non sempre sono soli; spesso vivono con la propria famiglia. Ogni primavera devono quindi lasciare la propria casa, pensare al trasloco e agli studi dei figli e accettare sistemazioni per lo più rudimentali, nonostante le norme in materia fissate dall’ordinanza del 1° luglio 1996. Il loro coinvolgimento è fondamentale per il miglioramento dello spazio pastorale, come è grande la loro collera quando i datori di lavoro decidono, senza una ragione reale e motivata, di licenziare un lavoratore dopo più di dieci anni di servizio per assumere qualcun altro.

Una passeggiata attraverso l’arco alpino mostra che la situazione non è migliore altrove. «In Svizzera e in Italia, la situazione dei pastori rumeni e kosovari è drammatica. Sono lavoratori precari, assoggettati al padrone e al gregge, con stipendi inferiori ai 1.200 euro – per quanti hanno uno stipendio –, condizioni abitative deplorevoli e nessuna protezione sociale», espone Guillaume Lebaudy, etnologo e direttore della Maison du berger. Nelle Alpi francesi iniziano ad arrivare anche dei lavoratori specializzati dell’Europa centrale.

Candidati sempre numerosi

Il miglioramento delle condizioni paradossalmente trova un nemico nell’attrazione che questo mestiere esercita. Gli allevatori reclutano facilmente del personale sostitutivo. Il mestiere gode di un’immagine idilliaca che spesso lo fa apparire come una buona possibilità di reimpiego. Responsabile della formazione da pastore al Centro per la formazione professionale e per la promozione agricola di La Motte-Servolex (Savoia), Bernadette Tasset spiega che «i candidati sono spinti dal desiderio di ricostruirsi a partire da un’attività all’aria aperta con gli animali». Gli stagisti hanno i profili più diversi, spesso lontani dal mondo della pastorizia. Un esempio è Gérard, che telefona all’Associazione di pastori dell’Isère: «Cerco un alpeggio per quest’estate. Sono cuoco a Chamrousse e mi piacerebbe cambiare».

Tuttavia, l’apprendistato passa attraverso un’esperienza che si acquisisce solo grazie alle stagioni passate in alpeggio, come rileva Dominique Bachelart, dell’Università di Tours, che ha studiato i percorsi dei pastori (5). «Si impara a conoscere bene la montagna solo dopo tre o quattro stagioni», considera un altro Gérard, settantenne. Le prime sere, Florence piangeva in mezzo ai suoi 600 bovini dislocati su 800 ettari. La stanchezza, gli animali indocili e la solitudine la facevano crollare. Gli anni seguenti sono stati meno difficili. «Solo i buoni ricordi ci risollevano il morale», osserva Dominique, che è diventato guida montana. La pastorizia ha bisogno di individui dalle competenze ampie, capaci di lavorare in autonomia e di prendere decisioni rapide di fronte agli eventi imprevedibili meteorologici o di altra natura.

Nel 2001 sono state fatte delle proposte da un gruppo interministeriale a Vic-en-Bigorre: contratti a tempo indeterminato intermittenti, diversificazione delle attività. L’intenzione era di definire delle condizioni di lavoro e delle garanzie minime, come la certezza di tornare al proprio posto di lavoro nella nuova stagione. Ma 14 anni dopo la situazione non è affatto cambiata.

Prima della nascita del Sindacato dei guardiani di greggi dell’Isère non esisteva alcun sindacato di pastori. Quest’azione spaventa chi teme di urtare gli allevatori e di perdere il posto. Ma garantirebbe una presenza nelle commissioni miste, necessaria al riconoscimento del mestiere. Lo sottolineava anche la relazione interministeriale: «Dev’essere raggiunto un accordo tra una o più organizzazioni sindacali rappresentative dei lavoratori, da una parte, e dei datori di lavoro, dall’altra». In Ariège e nelle Alte Alpi, delle trattative hanno portato a un miglior inquadramento per le condizioni di assunzione.

L’attuale precarietà e la mancanza di riconoscimento per un lavoro di pubblico interesse, qual è quello dei pastori, scardinano lo statuto che avevano tempo addietro; nel XVI secolo, per esempio, come spiega lo psico-sociologo e antropologo Patrick Schmoll, «il pastore è colui che conosce gli animali, sa nutrirli, riconoscere e prevenire le loro malattie, curarli. Le sue competenze sono riconosciute dalle comunità che li ospitano e li pagano, al pari dell’istitutore del XIX secolo» (6).

(1) Le persone che hanno accettato di lasciare la loro testimonianza hanno chiesto che non comparissero i cognomi.
(2) Graminacea dalle foglie pungenti, che gli animali evitano.
(3) I pastori utilizzano dei cani, detti “cani da pastore”, per guidare e condurre le greggi e altri, detti “cani da protezione”, che restano sempre con le pecore per proteggerle dagli intrusi. La razza più utilizzata in Francia è il cane da montagna dei Pirenei, o patou.
(4) In base ai dati del 2000 dell’Associazione francese per la pastorizia.
(5) , Berger transhumant en formation. Pour une tradition d’avenir, Parigi, L’Harmattan, 2002.
(6) Patrick Schmoll, «Une organisation paysanne sous l’ancien régime: la confrérie des bergers du Haut-Rhin», Annuaire de la société d’histoire des régions de Thann-Guebwiller, t. XX, 2000-2003.

*Pastore, medico veterinario, fondatore del primo sindacato di custodi di greggi dell’Isère.
Traduzione di Alice Campetti