Mikayel Ohanjanyan è uno degli artisti che ha lavorato al padiglione dell’Armenia, vincitore della Biennale Arte 2015. Il premio è stato assegnato perché racconta di un popolo in diaspora «dove ogni artista si confronta non solo con la sua località specifica, ma anche con il suo retaggio culturale». Lo abbiamo incontrato a Venezia.

Come nasce il padiglione armeno alla Biennale?

Il Ministero della cultura armeno ha deciso di affidare il padiglione alla curatrice Adelina Cüberyan von Fürstenberg. Proprio quest’anno ricorre il centenario del genocidio armeno: si è voluto così permettere agli artisti della diaspora armena di esprimersi. Per il padiglione, abbiamo scelto un tema importante, quello dell’armenità (Armenity è, appunto, il titolo della mostra) e invitato un gruppo di artisti che sono tutti discendenti – figli, nipoti e pronipoti – di sopravvissuti al genocidio. L’unica eccezione in tal senso sono io, che sono anche il solo ad essere nato nella Repubblica d’Armenia, pur se vivo da anni in Italia. La mostra non tratta direttamente temi politici. O meglio, è il concetto stesso della rassegna a essere politico proprio perché chiama a esporre i discendenti del genocidio. Ma l’esposizione non è basata su un discorso politico: è semplicemente un racconto personale e intimo di ciascuno, ognuno si interroga sul significato di tale appartenenza culturale. In questo senso, non abbiamo espresso un giudizio negativo nei confronti della Turchia e del suo governo (nonostante si continui a negare il genocidio armeno). Inoltre, non c’è alcun intento nazionalistico dietro le nostre opere. Ognuno vive la sua armenità dove è cresciuto come artista e cittadino di quel paese, arricchendola con questo apporto. Siamo tutti diversi. Io sono cresciuto a Yerevan e vivo in Italia, e la mia sensibilità è quindi differente da quella di un altro, nato ad esempio in Libano, che è a sua volta diversa da quella di uno nato in Francia. Nello stesso tempo, c’è un filo molto intimo che ci lega e si chiama proprio «armenità».

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Può spiegarci meglio cosa si intende per «armenità»?

Non è una cosa così definita. Si potrebbe pensare alla lingua, alla religione, alla cucina o alla musica. Ovviamente tutto questo fa parte dell’identità armena. Ma non è nulla di fisso, come un canone o un regolamento. È un sentimento molto profondo, da elaborare a modo proprio. Questa esperienza, per me, è stata un viaggio a ritroso nel tempo: mi ha portato fino alla mia infanzia, ho ricordato luoghi e paesaggi, la famiglia e gli amici. Alla fine, sono arrivato alla conclusione che per me la parola «armenità» indica un ritmo spaziale che è legato a quel contesto geografico. Non è una cosa visibile, tangibile, e tuttavia è una cosa che sento da sempre. Probabilmente, è un ritmo ancora più antico degli armeni, ma ci appartiene in quanto siamo eredi diretti di un luogo dove per diversi millenni ci siamo evoluti. Questo ritmo lo abbiamo assorbito, e così lo troviamo nell’architettura medievale, nella musica, nella letteratura, nella forma scultorea sia cristiana sia precristiana, pur nelle loro diversità. Da quest’idea ho preso spunto per la mia opera.

Parliamo ora del luogo della mostra: l’isola di San Lazzaro degli armeni…

È stato scelto dalla curatrice perché è già di per sé un’opera d’arte con la sua identità. Il luogo è centrale, con tutta la sua storia. Il padre armeno Mechitar fondò nel Settecento questo convento e, negli ultimi tre secoli, i monaci sono riusciti a fare dell’isola, un tempo adibita a lazzaretto, qualcosa di meraviglioso. Chi viene qui rimane colpito. Le opere sono state realizzate appositamente per l’isola, anzi ogni artista ha avuto il suo spazio specifico. Per esempio, l’opera di Hera Büyüktasçiyan si trova nella stanza dove il poeta inglese Byron, ospite dei monaci sull’isola, ha studiato la lingua armena. E così, il suo lavoro è legato a quel luogo e a quella storia. Il mio, invece, è dedicato al belvedere, e così via.
Oggi si cerca di esibire opere che siano il più eclatanti possibile; noi abbiamo fatto il contrario. Abbiamo realizzato lavori discreti, quasi mimetizzati, perfettamente bilanciati rispetto al luogo in cui abbiamo operato. I nostri pezzi non lo invadono: la sua identità forte è rispettata e, allo stesso tempo, le opere non vengono schiacciate.

Ci può raccontare il lavoro che ha esposto?

Ho realizzato un progetto per il belvedere: una terrazza ottagonale di quasi 15 metri di diametro. Un luogo carico di energia: intorno, c’è solo la laguna, in tutta la sua bellezza. È stata una sfida: la mia opera doveva essere in perfetta armonia con questo luogo, ma anche trasmettere qualcosa.

Per il lavoro, mi sono ispirato a Karahunj, che è un sito archeologico di grande fascino che sorge nel Sud dell’Armenia, dove si trovano 220 menhir posizionati a cerchio. Circa 80 di questi hanno fori sulla sommità, servono per osservare il cielo. Non sappiamo esattamente che cosa sia questo sito, che è avvolto nel mistero, un po’ come Stonehenge. La cosa certa è che si tratti di una necropoli. Partendo da questo, ho composto un cerchio di 12 blocchi di basalto di circa 12 metri di diametro, ciascuno dei quali con un foro al centro. Ho voluto creare un cerchio magico, dove lo spettatore potrà trovarsi al centro. Il 12 è un numero dal forte valore simbolico in molte culture, parla di rigenerazione e rinascita. 12 sono le capitali storiche dell’Armenia, ma anche le province dell’Armenia occidentale dove ha avuto luogo il genocidio.

Ho voluto anche rendere omaggio all’alfabeto armeno, che è stato nei secoli un veicolo fondamentale nella trasmissione d’identità. Ho scelto una poesia di Nerses Shnorhali del XII secolo, che è un inno alla vita, un po’ come il «Cantico dei cantici» di Francesco. Ogni verso di questa poesia inizia con una delle 36 lettere dell’alfabeto armeno. Ho ripreso questi versi, e ne ho incisi tre su ogni disco di corten, posto alla base dei blocchi.

Negli ultimi due anni, mi sono impegnato a scolpire lo spazio vuoto, e così ho ripreso da Karahunj l’idea del foro: è una porta, un’apertura verso una realtà nuova, che va oltre la morte. Se oggi esiste ancora un’identità armena, secondo me è anche grazie al ritmo spaziale di cui parlavo, che trasmesso di generazione in generazione ha permesso di tenere insieme gli armeni della diaspora e quelli dell’Armenia.