C’è un giudice in Europa. I fatti di Genova risalgono al 20 luglio del 2001. In quella circostanza una buona parte delle istituzioni si è sentita legittimata a ragionare e ad agire come se fosse in uno stato di eccezione. La presenza di due ministri nella cabina di regia delle operazioni di polizia contro i manifestanti assunse il significato di legittimare l’eccezionalità di quanto stava accadendo. Ci furono le brutalità della Diaz e poi le torture di Bolzaneto. Non furono episodi marginali o «mele marce».

Fu qualcosa di sistemico e strutturale. L’anno prima vi erano state le violenze al Global forum di Napoli e quelle denunciate nel carcere di San Sebastiano a Sassari. Tre anni prima, ovvero nel luglio 1998, l’Italia solennemente aveva firmato lo Statuto della Corte Penale Internazionale che avrebbe dovuto giudicare su scala globale i gravi crimini contro l’umanità, tra cui per l’appunto la tortura. Tredici anni prima, nel 1988, l’Italia aveva firmato e ratificato la Convenzione Onu contro la tortura che all’articolo 1 definiva il crimine e agli articoli successivi impegnava tutti i Paesi a punirlo in modo adeguato ed efficace. In Italia la tortura invece non è un reato. A Strasburgo se ne sono accorti e così è arrivata la condanna per quanto accaduto alla Diaz.

La parola chiave di questa storia è «scandalo».

La pietra dello scandalo non è la tortura praticata, in quanto essa non è mai purtroppo una sorpresa, neanche nelle più consolidate delle democrazie.

[do action=”citazione”]Chi si sorprende della tortura fa sempre il gioco dei torturatori[/do]

È uno scandalo il fatto che per 25 anni la classe dirigente di questo paese non ha avuto alcuno slancio nel nome dei diritti umani. La storia parlamentare ci rimanda a inerzie, meline, opposizioni nel nome ora della ragion di stato, ora dello spirito di corpo, ora delle mani libere.

Una storia politica dove è difficile capire chi non sia responsabile. Dal 1988 si sono succeduti governi della prima e della seconda Repubblica, governi di centrodestra e di centrosinistra, eppure la tortura non è mai stata criminalizzata per quel che è, ovvero un delitto proprio del pubblico ufficiale.

Nei prossimi giorni riparte il dibattito alla Camera. La Commissione Giustizia ha modificato il testo – imperfetto e incoerente rispetto al dettato Onu – approvato in Senato. Per cui riprenderà il ping pong parlamentare che nelle scorse legislature ha decretato la morte delle varie proposte di legge pendenti.

In tutti questi anni, abbiamo sentito parlamentari chiedere che non fosse punita la sofferenza psichica prodotta dalla tortura altrimenti alcuni pubblici ministeri avrebbero rischiato l’incriminazione o altri deputati evocare la punizione solo per chi tortura almeno due volte. Nel frattempo la cronaca ci ha ricordato che la tortura non è un crimine da terzo mondo, ma anche del secondo e del primo.

Tre anni fa un giudice ad Asti non ha potuto punire due agenti di polizia penitenziaria in quanto, come lui stesso ha scritto nella sentenza, «in Italia manca il delitto di tortura» e le condotte dei due agenti coincidevano con la descrizione del crimine presente nel Trattato delle Nazioni Unite.

Sappiamo – grazie a Voltaire – che il meglio è nemico del bene. Sappiamo anche che abbiamo bisogno di una legge che non perpetui l’impunità dei torturatori.

* Presidente di Antigone