Il prossimo esecutivo dovrà essere «politico», anche perché dovrà «rimettere mano al jobs act e alla buona scuola, e dovrà riconnettere il Pd e il governo con il popolo che ha dato un giudizio duro sulle riforme di Renzi». Roberto Speranza, candidato in pectore della minoranza bersaniana al congresso, ragiona: non è tempo di governi istituzionali. E neanche di accelerazioni al voto. Su questo non c’è spin che tenga, come ha spiegato ieri una fonte del Quirinale, all’Huffington Post: «È inconcepibile indire elezioni prima che le leggi elettorali di camera e senato vengano rese tra loro omogenee».

Si smonta da subito così da subito la sfida, o almeno una parte, che Matteo Renzi voleva porre oggi in direzione. L’appuntamento è slittato alle 17 e 30. Sarà il terzo round della crisi renziana, quella extraparlamentare aperta davanti alle telecamere domenica a mezzanotte a scrutinio ancora aperto. Al Nazareno Renzi arriverà dopo aver incassato l’ultima fiducia del senato e dopo essere salito al Colle per rassegnare le sue dimissioni da premier. Irrevocabili.

Erano una finta le dimissioni dalla segreteria del partito, invece, solo un’altra voce messa in giro per seminare il panico, in questo caso più fra i suoi che fra gli avversari. Renzi restare sulla plancia del Pd. E la sua proposta è: o un governo «istituzionale», di scopo, e di «responsabilità nazionale» con «la più ampia partecipazione delle forze politiche», leggasi Forza italia, per non farsi «rosolare». Oppure «subito al voto».

Ma subito al voto non si può andare, come Mattarella si è premurato di mettere in chiaro per frenare le dilaganti sgrammaticature istituzionali del giovane e ardito presidente. E se è vero che la minoranza Pd frena in ogni modo sul ritorno alle urne, è anche vero che intestarsi la frenata è una trappola in cui li sta conducendo per mano Renzi: per scaricare sulla «palude interna», leggasi Bersani&Ditta, ogni rallentamento e attribuire a sé l’intenzione di andare al voto subito. «A febbraio», dice l’ultimo spin in circolazione, e «con qualunque legge elettorale».

Il voto a febbraio è impossibile: il 24 gennaio la Consulta deciderà sull’Italicum, con ogni probabilità il parlamento – a bicameralismo perfetto vigente – dovrà scrivere una nuova legge. I tempi dunque si allungano. Spiega Bersani: «Vogliamo dare al parlamento la possibilità di ragionare su delle leggi elettorali che abbiano un criterio? Al voto si può andare in primavera, estate, autunno». Ma Bersani e i suoi hanno in testa la scadenza naturale della legislatura. Scadenza che in parlamento ha molti amici.

Anche nella direzione del Pd. Al di là dello scontro di facciata. Spiega ancora Bersani: «Sconsiglio di sfidare il Paese», ma «temo che in giro ci sia ancora quest’aria. Non si può vincere sulle macerie del paese, soprattutto se si rischia di perdere», e qui il riferimento alla velleità renziana di vincere con il «40%» della sconfitta al referendum.

Bersani, con Mattarella ma con altre parole, pensa che votare con due leggi diverse nelle due camere «è un’eresia totale, soprattutto per uno che predica la stabilità di governo. Si vota nel 2018, il congresso del Pd è alla fine del 2017. Non cerchiamoci il freddo nel letto», non andiamoci a cercare i guai, insomma, accelerando anche il congresso.

I bersaniani lo vogliono, ma senza fretta. Vogliono riproporre l’idea di distinguere il ruolo di premier da quello di segretario, ipotesi già sconfitta allo scorso giro. Renzi invece fa circolare l’idea che il congresso potrebbe essere cancellato, in caso di voto anticipato. Per gusto, tanto per seminare un po’ di isteria da ricandidatura.