A Javier Milei, che sognava di governare per decreto, le regole democratiche devono apparire una fregatura colossale. Come non fosse bastato il naufragio della legge Omnibus alla Camera dei deputati il 7 febbraio scorso, anche l’altro pilastro del suo programma – quel Decreto di necessità e urgenza (Dnu) con cui la motosega presidenziale si era abbattuta su più di 300 leggi riguardanti ogni aspetto della vita del paese – ha subìto una bocciatura clamorosa al Senato: addirittura con 42 voti contro, 25 a favore e quattro astensioni.

L’opposizione, costituita principalmente dal kirchnerismo, è riuscita prima a ottenere il quorum necessario affinché il Dnu venisse votato – esattamente quello che voleva evitare il presidente – e poi a respingerlo. E come era avvenuto dopo il ritiro della legge Omnibus, la furia di Milei è stata incontenibile: non solo contro i parlamentari delinquenti e traditori della patria ma anche contro i governatori – a cui aveva appena teso la mano con l’invito a firmare il «Patto di maggio» sulla creazione di un nuovo ordine economico per il paese – e contro la sua vice, nonché presidente del Senato, Victoria Villarruel, colpevole di non aver saputo o voluto scongiurare la sessione speciale sul Dnu.

La vicepresidente, con cui Milei già manteneva una relazione tesa e distante, aveva in realtà cercato di posticipare il dibattito ma, di fronte all’accordo trasversale tra l’Unión por la Patria, un settore dell’Ucr (Unión Cívica Radical) e vari legislatori di partiti provinciali, ha optato per il «rispetto dell’istituzionalità», mandando a Milei un preciso segnale di autonomia (e ricevendo in cambio attacchi pesantissimi sui social).

NON È UN SEGRETO per nessuno che le ambizioni di Villarruel – che già in campagna elettorale aveva saputo ritagliarsi uno spazio (all’estrema destra) – vadano ben oltre la presidenza del Senato a cui Milei l’ha confinata, sottraendole (a favore di Patricia Bullrich) quel ministero della sicurezza che pure le aveva garantito. E non mancano le voci su un presunto piano di destabilizzazione orchestrato proprio dalla vicepresidente, che già il Financial Times, lo scorso 7 gennaio, aveva raccomandato di tenere sotto attenta osservazione: è «pronta per qualsiasi cosa».

Sarà ora la Camera dei deputati a decidere del futuro del Dnu e dei suoi 366 articoli, molti già impugnati dalla giustizia, come quelli relativi alla riforma delle leggi sul lavoro. E per il governo è allarme rosso: se anche i deputati dovessero bocciarlo, Milei non solo dovrebbe rinunciare alle riforme più emblematiche della sua gestione, ma resterebbe di fatto senza un programma.

Proprio per questo il presidente non ha esitato a minacciare i governatori i quali, ha detto, hanno mostrato di non voler seguire «la via dell’accordo, ma quella dell’ostruzionismo»: «Se vogliono lo scontro, che scontro sia». È anche possibile, però, che, in vista dei colloqui per la firma del Patto di maggio attraverso cui Milei mira a «ricostituire le basi della Repubblica argentina», i governatori – a cui sono legati diversi parlamentari – vogliano solo alzare un po’ il prezzo.

Intanto, con un’inflazione che a febbraio ha superato il 270% annuo, l’indice di povertà salito al 60%, l’aumento fino al 70% del prezzo degli alimenti e un brutale aggiustamento che non risparmia nulla, neppure le pensioni e le mense comunitarie, l’Argentina sembra sempre di più una pentola a pressione. Giovedì, quando avrebbe dovuto prendere il via il nuovo anno accademico in oltre cinquanta università pubbliche, il personale docente e non docente ha deciso di incrociare le braccia contro i drastici tagli governativi.

UNA PROTESTA preceduta la settimana scorsa da una lettera al governo in cui 68 premi Nobel internazionali lanciavano l’allarme sul rischio che il sistema scientifico e tecnologico del paese si avvicini «a un pericoloso precipizio».

Mentre proprio prima della votazione al Senato, registi, attori e produttori hanno realizzato di fronte al Congresso una manifestazione in difesa del cinema argentino, puntualmente repressi dalla polizia.