Assai lontana da quei cliché di Gomorra catapultati dalla Napoli nord di Secondigliano e Scampia sui divani dei teleturisti virtuali, come dalle cartoline iperrealiste d’un ventre di Napoli siliconato per turisti reali… ecco a voi: l’immensa periferia della Napoli orientale!

A prima vista i quartieri di Napoli est (Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio, Poggioreale…) hanno gli stessi tratti somatici d’ogni altra periferia d’occidente, con una non sottile differenza: qui, nella ex zona industriale dei curcumvesuviani, l’ascensore sociale che ha trasformato l’Italia nel dopoguerra non s’è mai davvero messo in moto. Col risultato che una troppo rapida ascesa e declino del mondo operaio, non ha fatto in tempo a sostituire realtà agresti e non ha generato realtà nuove. Persa così l’identità contadina e mai acquisita quella operaia, questo lembo di terra è rimasto in sospeso, a mezz’aria, ne’ carne ne’ pesce. Siamo nella terra del «de», deindustrializzazione, delocalizzazione, decrescita, abitata in prevalenza da una piccola borghesia divorata da una doppia paura: quella fisiologica di vivere in una sorta di far west abbandonato a sé stesso e quella grottesca di volersi sentire altro dal contesto in cui s’alberga. Una patologia emotiva dove allo scivolamento progressivo verso l’indigenza, si aggiunge il giogo nevrotico del mantenere le apparenze. Costi quel che costi.

Giorgio (che non si chiama Giorgio) è disoccupato ma per sua fortuna sua moglie è benestante e hanno una casa di proprietà. Potrebbe quindi mettersi l’anima in pace trovarsi un hobby o passare il tempo a guardare lavori in corso, invece: «papà è nel suo studio a lavorare, non fate rumore…» raccomanda sua moglie al figlio e ai suoi amici, patetica mess’in scena per nascondere una verità fatta, oltre quella porta chiusa, di parole crociate, giornali sportivi e siti porno, col povero Giorgio che ogni mattina si veste come un dirigente aziendale e siede immobile alla scrivania fino a ora di pranzo; quindi breve pisolino pomeridiano e di nuovo in «ufficio» fino a ora di cena.

Allo stesso modo capita che vai da un barbiere, bottega vuota, lui rigorosamente sfaccendato, ma per darsi un tono i capelli non te li taglia perché riceve solo su appuntamento… e quando ci ripassi te lo ritrovi chiuso perché è fallito. Così. A Napoli est le saracinesche chiudono a ritmo vorticoso e su interi pezzi di strada il deserto del commercio al dettaglio è totale, in uno scenoagrafi che da Stazione Centrale a Poggioreale non vede un filo d’erba o un lampione che faccia abbastanza per vederci a un palmo dal naso, coi mezzi pubblici che passano a ogni morte di Papa e sono stipati come carri-buoi.

A spingersi poi più su, da Poggioreale ai confini nord della Città Metropolitana, non un’area verde, solo vuoto, sale slot e centri commerciali. E così, schiacciata dalla brutalità del sotto proletariato con i suoi codici e i suoi riti dalla quale tenta di non essere ingoiata, questa parte residuale di piccola borghesia ancora aggrappata a Napoli orientale come un naufrago a un rottame di legno, prima si fa in quattro per far studiare i figli e poi si fa in otto per spedirli al nord Italia o direttamente all’estero.

Per dirla col vecchio Trockij che pur non conoscendo le vie Lattee di queste periferie napoletane ne aveva ingarrato il destino: «la classe media è un tragico, sfortunato relitto del passato, incapace d’estirparla del tutto il capitalismo è riuscito a ridurla al punto più estremo di degradazione e sofferenza…».

Ciro è nato e cresciuto a Ponticelli. Sessantatré anni, ipovedente, percepisce un indennizzo di invalidità così micragnoso che alla fine del mese proprio non ci arriva. E così da una parte non può guidare un’auto, dall’altra lavora a un tornio come meccanico di precisione. Ogni mattina si fa venire a prendere da un altro operaio a cui paga la benzina e finché oltre alla vista non ci perde pure una mano, lui non smette di faticare; ma dalla sua, Ciro, ha che col tornio è così avviluppato in un rapporto quasi sensuale, che anche se non ci vede una mazza la macchina la «sente» e i pezzi che realizza sono ancora i più precisi. Tiramm’ annanz’.

Il prossimo incontro avviene su un bar dell’Asse Mediano, la statale che si allunga sulla faccia dell’area a nord di Napoli come una smorfia: siamo nei pressi di Marcianise dove sull’oceano grigio del cemento sbocciano bar californiani dai nomi esotici. A quest’ora poco traffico, entriamo e usciamo da cittadine e frazioni senza manco accorgercene. Un tempo ci stava Napoli e ci stavano tanti paesi attorno, ma la città che poi scompare si porta appresso pure la periferia in una poltiglia di nulla dove ogni identità si perde. Cosa che però non vale per Salvatore.

Salvatore Iasevoli, che nel suo profilo social scriverà pure nato a New York ma lui è nato a Mariglianella, frazione tra Pomigliano d’Arco e Marigliano: «quattro famiglie in tutto», ricorda fissando un punto nell’aria, «poco più che una masseria, quando mio padre fu assunto all’Alfasud andammo a vivere a Pomigliano che a me pareva Parigi…» poi l’incontro con il mitico Marcello Colasurdo, voce storica degli «Zezi», la febbrile partecipazione all’underground napoletano degli anni ‘90, l’artigianato d’autore e la vita che si mette a correre. Oggi Salvatore è uno splendido cinquantenne che canta col Gruppo Popolare Terra e Lavoro e continua a produrre strumenti musicali artigianali. Nella sua esperienza culturale e di vita, somma e sintetizza tante Napoli diverse: agricole, operaie e infine liquide: «Ricordo la tuta di mio padre, le sue mani… oggi come oggi gli operai sembrano tanti programmatori di computer.» La musica, quella che riscopriva tradizioni e formava coscienze politiche, trasfigurata in ritornelli folk alla moda, le sue lotte decomposte dalla pigrizia telefonica delle nuove militanze. «Una volta, per solidarietà con quattro operai in difficoltà,» rammenta, «Marcello Colasurdo rimase fuori dai cancelli dell’Alfasud sette giorni di fila e alla fine lì eravamo in migliaia! Oggi l’ultima protesta alla quale ho partecipato ci stavano due disoccupati su un campanile e io solo che me li guardavo assettàto ‘ncopp’a ‘na seggia.» Salvatore è un vulcano di energia positiva e mentre ripercorre l’ottusa danza di questo tempo, lui rimane sereno e quelli turbati siamo noi. Ci salutiamo in fretta, quasi con pudore.

Poi ci ributtiamo su quell’Asse Mediano che unisce tanti puntini del niente nell’hinterland napoletano, ma a un certo punto ci perdiamo fino a ritrovarci intrappolati in una specie di check point sotto al cimitero di Poggioreale assediato da eterni lavori in corso. Un budello di lamiere oltre il quale scorgiamo strani movimenti di bare spostate da una parte all’altra… pompieri? Racket del caro estinto? Sia come sia, pare che ai circumvesuviani non sia garantito manco l’eterno riposo. E mo’ basta! dirà qualcuno, scrivete a quattro mani ma co’ ste dita sempre nella stessa piaga, beh, allora al Calvino delle Città Invisibili l’ultima parola: «l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, è quello che è già qui, che abbiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso, esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio». Altro che passerelle a Caivano che al sistema gli fanno un baffo.

Seconda puntata del reportage su Napoli. La prima puntata è uscita su Alias il 9 marzo, la terza e ultima il 30 marzo