La wikileaks che ha colpito i server della Mossack Fonseca, lo studio legale con sede a Panama specializzato nell’aiutare i milionari globali dell’un per cento a imboscare i propri redditi leciti e non per eludere ed evadere le tasse, continua a provocare il serio imbarazzo di David Cameron, l’unico primo ministro di un vasto stato europeo a essere stato finora chiamato in causa dalla pubblicazione di dati. Ulteriori fughe di notizie che accertassero altre responsabilità del premier nel tentativo di eludere il fisco del paese da lui guidato non gli risparmierebbero le dimissioni. Sono dunque giorni delicatissimi di ricucitura dello strappo grave di credibilità che lo sta allontanando dall’opinione pubblica di quella Inghilterra profonda che è responsabile della sua presenza a Downing Street.

Ma il verminaio fiscale è ormai scoperchiato. La scorsa settimana il premier britannico aveva riconosciuto la propria compravendita di azioni di una società che il defunto padre banchiere aveva creato attraverso le scappatoie fornite dallo studio panamense. Ora la forzosa decisione di pubblicare la propria dichiarazione dei redditi nel tentativo di placare gli animi sembra provocare l’effetto contrario, giacché ha evidenziato altri due versamenti di 100.000 sterline effettuati sui conti di Cameron dalla madre e intesi a risparmiare alla famiglia 80.000 sterline in tasse di successione. Pare inoltre che siano provenienti da investimenti effettuati nell’isola di Jersey. A rimpinguare le già tutt’altro che vuote tasche del primo ministro, la cui infanzia difficile (è figlio di un banchiere milionario, ha frequentato Eton e Oxford, eccetera) è cosa peraltro nota, ci sarebbero inoltre i copiosi interessi maturati grazie all’aver parcheggiato questi denari sotto le palme panamensi e in altri paradisi fiscali britannici quali le Virgin Islands. Né suona convincente la sua promessa di allestire una tax force per monitorare e punire l’elusione fiscale solo ora che i buoi sono fuggiti dalla stalla.

Ora le rivelazioni di quanto era come minimo immaginabile hanno puntualmente causato una raffica di pubblicazioni delle proprie dichiarazioni dei redditi da parte di tutte le principali personalità politiche, compreso il cancelliere Osborne, il leader dell’opposizione Jeremy Corbyn, la leader del Labour scozzese Kezia Dugdale, il sindaco di Londra Boris Johnson, solo per citare la corsa scomposta verso la trasparenza di alcune personalità politiche.

Tutte munizioni inaspettate nell’arsenale di Jeremy Corbyn, che ha finora potuto assistere con malcelata soddisfazione alle ultime settimane orribili del primo ministro, già messo all’angolo dalle fratture interne al partito sulla questione Brexit. Durante il confronto alla Camera dei comuni, cui Cameron è stato costretto a sottoporsi, il leader laburista ha attaccato quel mondo a misura di super ricchi di cui Cameron funge da garante e quella che in buona sostanza, piegandosi a usare una parola che evoca le infelici buffonate retoriche del fascismo, ammonta a una plutocrazia.

Dopo aver a sua volta pubblicato la sua dichiarazione dei redditi, Corbyn ha accusato Cameron di aver impartito a parlamento e opinione pubblica una lectio nell’arte del depistaggio.

Se tanto indignarsi da parte dei media per tutte queste rivelazioni pare un esercizio del tutto specioso, soprattutto quando il ruolo per cui Cameron è stato eletto è esattamente quello di difendere il diritto privato contro i doveri pubblici, la ricchezza personale contro il benessere sociale, la protezione del tornaconto individuale a scapito della comune prosperità, resta il danno irreparabile di credibilità di un primo ministro ora più che mai chiaramente parte di una consorteria. Anche per questo non meraviglia la solidarietà di Nigel Farage con il premier: il leader dell’Ukip è l’unica stecca nel coro di voci bianche con cui il mondo politico tutto si è detto favorevole alla pubblicazione dei propri introiti e il fatto che sia un ex broker autorizza a ritenere che abbia tutto da perdere qualora si trovi costretto a farlo.