Non era difficile prevederlo. La reazione di Renzi alla pesante batosta dei ballottaggi di domenica scorsa è quella classica del bambino viziato affetto da un delirio di onnipotenza, in linea con l’escalation dell’arroganza che ha caratterizzato il primo anno di governo. Se la realtà delude, peggio per la realtà. Chi si aspettava un ripensamento ha fatto male i conti: lui rilancia, «aumenterà i giri», come ha spiritosamente spiegato commentando i trionfi di Venezia e di Arezzo.

L’analisi del voto prospettata dal presidente del Consiglio è a suo modo interessante. Ora la sconfitta non è più negata, come all’indomani del primo turno. Non è nemmeno imputata ai traditori di sinistra (vedi il caso Liguria). Renzi simula addirittura un’apparente autocritica. Il Pd ha realizzato cose mirabolanti, a cominciare dal Jobs act e dall’Italicum, ma non ha fatto abbastanza nel segno del cambiamento. Ma qui l’autocritica si ferma e si rovescia. L’unico errore è stato dar retta, per un momento, a chi gli diceva che stava sbagliando. In realtà il Pd ha perso perché è ancora in mezzo al guado, perché non si è rinnovato abbastanza. E anche il governo ha pagato un eccesso di timidezza nei confronti del vecchio. Ora però si cambia, o meglio, si torna all’antico. Cominciando proprio dal partito, dove Renzi annuncia di voler mettere «i suoi» (li avrebbe sin qui messi soltanto «al governo») «infischiandosene delle reazioni».

Detto fatto. I «giri» sono in effetti già aumentati, come si è visto. Sulla scuola si è passati al ricatto esplicito sulla pelle dei precari, col duplice scopo di non assumerli e di criminalizzare chi ancora nel Pd si permette di avanzare qualche timido emendamento. Sulla mafia si è passati al bombardamento del sindaco di Roma (sino a ieri difeso a spada tratta da Guerini e Orfini) con l’obiettivo di inserire anche la capitale tra le grandi città che voteranno tra un anno. Sulla Cassa depositi e prestiti si è passati all’assalto frontale per «mettere i suoi» al posto della vecchia guardia e porre le premesse per la privatizzazione.

Di tutto Renzi può essere accusato meno che di temporeggiare. È insaziabile e mosso da un rancore senza remore. Non occorre la sapienza dell’aruspice per prevedere che nei prossimi mesi farà altri disastri nel segno di una sfrenata prepotenza.

Insomma, nulla di nuovo, si potrebbe dire. Invece no, di novità ce ne sono, a ben guardare, diverse. E niente affatto irrilevanti. La prima riguarda proprio il Pd. Altre elezioni si avvicinano. Milano, Torino, Napoli, Bologna. Forse Roma, appunto. E probabilmente anche le politiche, visti i problemi del governo in Senato. Non è affatto escluso che nella primavera del 2016 si voti per tutto, e tutto lascia intendere che la guerriglia interna al partito ha le ore contate.
È vero che sinora Renzi ha sempre fatto quel che voleva e che al dunque i dissidenti del Pd hanno puntualmente obbedito. Ma d’ora in avanti nemmeno l’obbedienza basterà, né l’umiliazione. Il partito deve prepararsi ai prossimi decisivi appuntamenti elettorali proiettando di sé un’immagine di assoluta compatezza. Senza fatui psicodrammi né pesi morti. Ne vedremo presto delle belle.

Una seconda novità riguarda l’agenda politica del governo. Renzi ha bisogno di allontanare da sé l’ombra della sconfitta, quindi deve subito riprendere l’iniziativa per dimostrare che è forte come prima, anzi di più. «Da oggi le riforme sono più vicine, non più lontane», pare abbia sibilato commentando il risultato degli ultimi ballottaggi. Quali riforme non ha specificato.

Certo la legge costituzionale, certo la scuola. Poi si tratterà di inventare qualche altro fuoco d’artificio per trionfare sul terreno della propaganda. Su un’unica cosa sarebbe insulso farsi illusioni, ed è il segno politico di quel che intende fare. Renzi teorizza che l’Italia è un paese moderato che si governa «dal centro». Per questo ama allearsi con Berlusconi, Alfano e Verdini. Per questo adora Marchionne e sogna un unico grande sindacato giallo.

Il suo problema è semplice, almeno a parole: escogitare misure che, senza troppo deludere chi ancora lo considera «di sinistra», incantino l’elettorato centrista – il ceto medio spaventato e irriducibilmente antioperaio – giovando al tempo stesso agli amici che contano nelle imprese e nelle banche.
Ma la novità più importante concerne la fase politico-elettorale aperta da queste amministrative. Si è capito che Renzi è in larga misura un bluff.
Quel disgraziato 40% delle europee (pari al 20% in termini assoluti) è servito al governo per imporre decisioni rovinose ma non fotografa affatto la composizione politica reale del paese. Che è sempre più lontano dalla politica politicante e che, nella misura in cui va ancora a votare, mostra di mantenersi in sostanziale equilibrio fra i tre campi che oggi si spartiscono la scena mediatica e istituzionale: il Pd, il M5S e la destra di Salvini, Berlusconi e Alfano che la nuova legge elettorale provvederà a riunire. Certo, di qui a un anno possono accadere tante cose ma, se stiamo ai fatti e a quanto è prevedibile, lo scenario che il voto di queste settimane apre è inquietante.

Il Pd di Renzi è responsabile di scelte regressive sul piano sociale, economico e istituzionale. Nel giro di un anno ha sensibilmente aggravato le ingiustizie e le disuguaglianze che segnano il paese lasciando che tutto il peso della crisi si scarichi sui ceti più deboli. Proprio queste scelte rendono sempre più concreto il rischio che la destra torni al potere.

La destra ambigua dell’antipolitica e dell’improvvisazione o quella affarista e razzista della tradizione.
Quanto alla sinistra, la sua responsabilità – gravissima – sta, non da oggi, nel non esserci. Nel non riuscire ormai da anni a trovare una parola e forse una figura capaci di riconquistare la fiducia di quanti, in un passato tutto sommato recente, hanno investito nelle battaglie per il lavoro, la democrazia, la pace e l’ambiente. E di restituire loro il desiderio di ricominciare.