Dopo l’accordo sul debito greco è legittimo chiedersi se l’Europa unita può ridursi ad una serie di Stati più o meno vassalli della politica liberista a guida tedesca. Come nel Medio Evo, infatti, oggi assistiamo ad una progressiva classificazione operativa dei Governi europei in vassalli, valvassini e valvassori del capitalismo teutonico, sino ad arrivare, secondo chi vuole ispirarsi a questa datata impostazione geopolitica, ad avere anche i servi delle gleba, in questo caso la Grecia o il più arrendevole Portogallo. Ma se questo è il quadro di riferimento della politica liberista di stampo renano, la visione che se ne ha oltre oceano è ben diversa. Da parte loro gli Usa capiscono bene che, all’interno della crescente tensione con la Russia, oggi inserita a pieno titolo all’interno dei Brics e della loro nascente politica di autonomia dalla Banca Mondiale a guida americana, una Grecia disperata potrebbe tentare due mosse entrambe preoccupanti per gli equilibri globali: chiedere un prestito alla neonata Banca Mondiale per lo Sviluppo finanziata dai BRICS, e aprire ulteriormente le porte alle imprese cinesi per quanto concerne la privatizzazione di infrastrutture portuali a partire dal Pireo. Queste decisioni, ancora possibili, se non necessarie, in caso di una ulteriore forzatura sui rientro del debito greco da parte della Troika, andrebbero non soltanto a rafforzare i Brics nel loro insieme, ma a tendere ulteriormente intorno all’Europa carolingia quell’arco di crisi già estremamente preoccupante che fu completato dalla miope politica europea con l’esclusione della Turchia. Se oggi, infatti, ci troviamo circondati da una morsa ferrea che, partendo dal Maghreb, arriva sino al Kosovo passando per l’instabilità letale del Medio Oriente, lo dobbiamo anche alle politiche neo-ottomane dell’attuale dirigenza turca, e questo probabilmente non sarebbe accaduto se i governanti europei avessero fatto dei calcoli un po’ più lungimiranti.

Purtroppo pare che la storia, almeno quella recente, non abbia insegnato nulla né alla Merkel né tantomeno ai suoi vassalli, come la Francia di Hollande, o ai valvassini, come l’Italia di Renzi. E allora, com’è possibile che questi governi subalterni sia agli USA che alla Germania non riescano a esercitare una funzione di equilibrio all’interno dei loro stessi interessi nazionali ma si siano spostati decisamente verso quelli mercantili mitteleuropei? Com’è possibile che i residui di social democrazia francese o il Partito democratico a guida renziana che vanta la stessa appartenenza, non vogliano poter giocare l’ultimo margine negoziale che gli resta per non scomparire del tutto all’ombra delle Democrazia Cristiana tedesca? Qui sta l’arcano della politica spettacolo, della democrazia privata del suo popolo, del potere fatto di annunci twittati, in breve della crisi radicale del modello democratico europeo. Infatti, quando, come nel caso di Renzi, si giunge al potere senza nessuna investitura diretta da parte degli elettori, ma anzi, si continua pervicacemente ad erodere se non azzerare le basi per la partecipazione realmente democratica, cioè critica, alla vita del proprio partito, quando solo le legittimazioni mediatiche, anch’esse pilotate dai poteri forti, sanciscono l’appoggio alla leadership, ecco che può benissimo avverarsi quella politica da «Arlecchino servo di due padroni» che il nostro Presidente del Consiglio pratica con molta disinvoltura: da un canto le pacche sulle spalle da parte di Obama che in cambio di un sorriso alla Casa Bianca ha infossato per altri anni le nostre truppe nel pantano afghano e, dall’altra, la sudditanza alle politiche, non europee ma interne, della Germania, anche qui in cambio di una serie di annunci di protagonismo negoziale a beneficio esclusivo dei media mainstream. In questo quadro la sinistra antiliberista italiana cerca un ennesimo rilancio partendo da residui partitici o movimentisti alquanto logorati dalle passate scissioni e successive false ricomposizioni.

Ma non basta citare oggi Syriza come solo un paio di anni or sono si citava la Linke ed il suo modello organizzativo, o Podemos o ancora altre esperienze latino americane, non a caso nate in Paesi dove la sinistra non ha la storia da legno storto che vige in casa nostra, per creare le basi di una forza non solo in grado di governare, come sta facendo Tzipras in Grecia, ma di convincere tutto un popolo della necessità di alzarsi in piedi e rivendicare quelle che furono le basi dell’Europa di Ventotene. Forse sarebbe il caso di riflettere che, partendo dalla critica della socialdemocrazia o avendo come orizzonte programmatico l’essere alternativi a questo Pd renziano, si finisce con l’usare le stesse categorie politiche di sempre, logore e inutili a procedere oltre la crisi delle radici stesse di quel pensiero. La sinistra del presente deve superare il richiamo analogico, ignorare le corrispondenze ed i rimandi: rompere con l’appartenere alla stessa sfera culturale e politico organizzativa che si critica. È proprio questa rincorsa che non convince i cittadini e li tiene lontani da un’alternativa che, invece, le formazioni politiche di altre realtà hanno costruito mattone dopo mattone usando categorie nuove, oltre le divisioni e dunque le visioni del secolo scorso. Da questo punto di vista quando si parla di «allontanare i reduci ed i guardiani delle tombe» perché si intende sempre qualcun’altro e mai chi ha tentato negli ultimi vent’anni esperimenti che al massimo hanno prodotto qualche seggio buono per una rendita di opposizione? Credo sia questa anche l’intuizione che muove la coalizione sociale di Landini. Se vogliamo essere coerenti con la sfida di pensare le nuove categorie per una politica dell’inclusione e della salvaguardia dell’ambiente, del diritto dei diritti fondamentali, allora bisogna programmaticamente dare spazio alle formazioni inedite, sostenere nuove dirigenze, fare realmente un passo indietro da parte di chi sino ad ora non ha concluso nulla se non convegni e cartelli falsamente pattizi, promuovere una gioventù che forse non ha un passato ma che certamente vuole avere un futuro.