È ancora incerto il bilancio del terremoto che sabato scorso ha colpito alcuni distretti della provincia occidentale afghana di Herat. Secondo alcune fonti dell’Emirato islamico, il governo dei Talebani, a interim e senza riconoscimento internazionale, le vittime sarebbero più di 4.000. Per le agenzie dell’Onu circa 2.500, e 11.500 le persone coinvolte, la maggior parte nel distretto di Zindajan, che ha registrato quasi 1.300 morti.

Le operazioni di ricerca e soccorso proseguono in parte anche nel momento in cui scriviamo, mentre si svolgono o preparano preghiere e funerali collettivi. L’ospedale provinciale di Herat fatica ad affrontare l’emergenza, aumentano i dubbi sulla capacità delle autorità di fatto di gestire la situazione e l’Onu si appella alla comunità internazionale, rivelandone l’ipocrisia.

LA VISITA ALL’OSPEDALE di Herat e in alcun distretti colpiti da parte del vice ministro per gli affari economici, mullah Baradar, e dei rappresentanti dei ministeri della difesa e della gestione dei disastri serve a rassicurare la popolazione, a mostrare all’esterno che la situazione è sotto controllo. Ma secondo alcune fonti i soccorsi sono stati lenti, disorganizzati, ostacolati da carenza di risorse, mezzi, esperti, oltre che dall’assenza delle donne, a cui nel dicembre 2022 le autorità hanno proibito di lavorare per le organizzazioni non governative e nell’aprile 2023 anche per l’Onu.

I deficit nella risposta sono effetto del ritorno al potere dei Talebani, che ha provocato un’emorragia di tecnici e le cui decisioni hanno depotenziato risorse, attività e capacità di intervento dello “Stato parallelo afghano”, quelle delle ong. Ma sono anche un fallimento del governo precedente, la Repubblica islamica. Incapace, insieme ai partner internazionali, di rafforzare il sistema di prevenzione e gestione dell’emergenza. E di irrobustire un sistema sanitario reso poi ancora più fragile dall’interruzione degli aiuti allo sviluppo, dal definanziamento di quelli umanitari e dal congelamento all’estero delle riserve della Banca centrale afghana. Scelte politiche.

NEL MARZO 2023 Ocha, l’ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli affari umanitari, ha elaborato un Piano di risposta umanitaria che prevedeva per il 2023 uno stanziamento di 4,6 miliardi di dollari. Il 5 giugno, riconoscendo la riluttanza dei donatori nel fornire aiuti a causa delle politiche discriminatorie dei Talebani, la cifra è stata ridotta a 3,2 miliardi. Oggi quella richiesta è soddisfatta solo al 34%, notano le Nazioni unite, che hanno riservato al terremoto di sabato 5 milioni di dollari dell’Afghanistan Humanitarian Fund. Ma «altre risorse sono necessarie per rispondere ai bisogni».

L’Unione europea ha annunciato lo stanziamento immediato di 3,5 milioni di euro, mentre i Paesi della regione hanno promesso sostegno e inviato squadre di tecnici – Iran e Turchia tra gli altri – o carichi di materiali e cibo. Insufficienti. Manifestazioni di solidarietà anche da parte della popolazione afghana: diverse le raccolte fondi in molte province del Paese, così come nelle comunità della diaspora.

MA OLTRE LA SOLIDARIETÀ, e dietro la risposta “umanitaria”, rimane il nodo politico: se e come sostenere il Paese; se e quando riprendere gli aiuti allo sviluppo, senza limitarsi a quelli umanitari, ridotti; quando sbloccare i fondi della Banca centrale. Per ora prevale l’ipocrisia: i Paesi donatori annunciano che i soldi non andranno ai Talebani, ma ai partner sul terreno. Ma sul terreno il coordinamento è indispensabile. E ogni aiuto – scrive la ricercatrice Ashley Jackson in un recente paper per l’Afghanistan Analysts Network – rafforza inevitabilmente le autorità di un Paese, anche se in modo indiretto. I donatori dovrebbero istituire tavoli di confronto con le autorità di fatto sulla gestione degli aiuti, anziché delegare alle agenzie dell’Onu. Le quali a loro volta delegano spesso il negoziato più difficile, giorno dopo giorno, alle tante ong sul campo.