Erano almeno in un centinaio, i manifestanti che ieri si sono radunati di fronte all’ambasciata italiana al Cairo per un sit-in in ricordo del ricercatore Giulio Regeni, trovato morto quattro giorni fa nella periferia della capitale egiziana. Sorvegliati da decine di poliziotti e ripresi dalle telecamere di un gran numero di tv internazionali, i manifestanti hanno deposto fiori e hanno acceso candele. «Giulio era uno di noi», hanno scritto sui cartelli, scritti sia in arabo che in italiano.

Molti i giovani presenti, in gran parte donne. C’era anche Laila Soueif, la madre di Alaa Abd El Fatah, attivista che nel 2015 è stato condannato a 15 anni di carcere a seguito delle rivolte del 2011 contro Hosni Mubarak. Presenti anche le madri di altri attivisti in carcere, come ad esempio Khaled Awad, del partito Dustur, e molti rappresentanti di sindacati indipendenti, oggetto dello studio, dell’interesse e dei pezzi mandati al manifesto da parte di Regeni. «Per Giulio, per l’Egitto», recitava la scritta su un cartello. «Sono qui per Giulio – si poteva leggere su un altro – e per tutti i giovani che hanno perso la vita in cerca della libertà e della dignità».

I presenti hanno deciso di non scandire alcuno slogan contro il governo o le autorità. chi era in piazza però ha la sua idea su quanto potrebbe essere successo al ricercatore italiano. La sensazione di tutti è che a Giulio sia stato riservato lo stesso trattamento subito da tanti attivisti egiziani, morti o scomparsi negli ultimi tempi. «Giulio uno di noi – si poteva leggere su uno dei cartelli lasciati tra i fiori e le candele – e per questo è stato ucciso come noi».