«Stefano Cucchi è stato vittima di tortura come Giulio Regeni». Le parole con cui ieri il pg Rubolino ha chiesto di cancellare l’assoluzione dei 5 medici dell’Ospedale Pertini aprono uno squarcio sul ferreo velo dell’ipocrisia italiana. E non solo: se il governo pare aver rinunciato alla verità per la morte del ricercatore italiano, ad ostacolare il già tortuoso lavoro della magistratura italiana ora è anche l’università di Cambridge, per cui Giulio stava svolgendo la sua ricerca sui sindacati egiziani. Quello studio, dicono, «è confidenziale»: un no comment, difficile da digerire, è la risposta dell’ateneo britannico alla rogatoria internazionale della Procura di Roma che sta indagando sulla sparizione e l’omicidio di Giulio.

Uno schiaffo in faccia per la famiglia Regeni che a Cambridge aveva più volte chiesto sostegno: «Alla comunità universitaria di Cambridge – dicono Paola e Claudio in una dichiarazione ripresa in rete dal senatore e presidente della Commissione Diritti Umani Manconi – avevamo affidato con fiducia e sacrificio nostro figlio Giulio e da questa comunità accademica ci aspettavamo la massima e concreta solidarietà e dunque la totale collaborazione nella ricerca della verità circa le circostanze del suo sequestro e della sua atroce uccisione, avvenuta al Cairo mentre svolgeva attività di ricerca per l’università».

Ma a Cambridge le bocche sono cucite: ci si nasconde dietro una norma interna che permette di non rivelare informazioni su ricerche e attività didattiche. È il dito dietro cui si è nascosta ieri Maha Abdelrahman, docente egiziana che ha seguito Giulio passo passo durante la sua attività di ricerca in Egitto, tanto da incontrarlo a dicembre al Cairo poco dopo l’assemblea in cui si era accorto di essere stato fotografato.

«Non rilascio dichiarazioni alle autorità italiane», ha detto agli inquirenti volati in Gran Bretagna. Eppure solo pochi giorni fa aveva partecipato alla commemorazione a Cambridge, a cui hanno preso parte anche i genitori di Regeni. Silenzio anche da David Runciman, responsabile del progetto di Giulio ma che inspiegabilmente boicotta la sola istituzione – la magistratura italiana – che ancora tenta di scoprire perché, come e per mano di chi il giovane ha perso la vita.

La rogatoria era stata presentata nell’intenzione di trovare nuovi elementi probatori nell’ambiente in cui Giulio lavorava, visto il muro di gomma costruito dai vertici del Cairo. In particolare gli inquirenti italiani sono interessati alla metodologia Par, Participatory action research, modalità di ricerca che prevede l’ingresso diretto nella realtà oggetto dello studio. Ovvero quello che Giulio faceva al Cairo quando partecipava alle assemblee dei lavoratori e interloquiva con loro, finendo così nel mirino dell’asfissiante e pervasivo sistema di controllo governativo della società civile (un sistema che Abdelrahman, da oppositrice del regime, conosce bene). Sulla metodologia in questione il pm Pignatone avrebbe voluto sapere di più.

Di certo dalle indagini in Gran Bretagna sono emerse le scontante conferme che Regeni non fosse una spia o un membro dei servizi segreti, accusa più volte mossa dai media allineati al Cairo: sul suo conto bancario non c’erano che poche migliaia di euro.

Intanto proseguono gli accertamenti sui documenti che la procura generale del Cairo ha consegnato in seconda battuta ai colleghi italiani: l’analisi parziale dei telefoni cellulari agganciati nelle zone della capitale egiziana dove Giulio è scomparso il 25 gennaio ed è stato ritrovato il 3 febbraio. I dubbi, nonostante la rinnovata collaborazione, restano: dalla traduzione del dossier inviato dal Cairo emergono discrepanze con le dichiarazioni della polizia. In particolare i conti non tornano sulle modalità di ritrovamento dei documenti di Regeni nella casa di Tareq Abdel Fattah, membro della presunta banda criminale sterminata dalla polizia e poi accusata dell’omicidio, e sui tabulati telefonici di tre membri della stessa “gang”.

Omicidi extragiudiziali che ieri il Nadeem Center, centro che tratta le vittime di tortura, tornava a denunciare: nei primi 5 mesi del 2016 se ne contano già 754.