L’investitura di Donald J. Trump è avvenuta poco dopo le 19 (notte in Italia) al termine del rituale «roll call» delle delegazioni di ogni stato, assiepate nel Quicken Loans Arena. Dopo la nomination formale da parte dello speaker Paul Ryan e di Jeff Sessions, senatore dell’Alabama e uno dei politici più reazionari d’America, i portavoce delle delegazioni hanno annunciato a turno le preferenze registrate dalle rispettive primarie. Quando è stata la volta di New York, ha preso la parola Donald Trump Jr., primogenito del magnate, dichiarando l’appoggio unanime degli 89 delegati per il padre. Nell’arena l’ovazione è stata come un boato; sui maxischermi sono passati fuochi d’artificio virtuali, mentre gli altoparlanti sparavano le note di New York, New York, inno ufficiale di una città che nel 2012 ha votato democratico con la percentuale record dell’81%.

Dettagli irrilevanti ai fini della pompa magna inscenata per le telecamere dei network che hanno registrato l’attesa incoronazione con la conta finale e ufficiale di 1725 delegati per Trump, 475 per Cruz, 120 per John Kasich e 114 per Marco Rubio. Classifica del tutto pro forma che racconta comunque la marcia effettivamente impressionante di Trump verso la conquista del partito con 38 vittorie su 50 primarie ed il maggior numero di voti popolari mai ammassato da candidato repubblicano. Numeri che hanno siglato una delle campagne più singolari a memoria politica americana, quella in cui in pochi mesi il partito repubblicano è stato espugnato da un bancarottiere megalomane capace di fare leva sulle pulsioni incontrollabili di una base fino ad oggi aizzata a fini puramente elettorali dall’establishment conservatore. Nove mesi che hanno prodotto quello che con la Brexit è il maggiore terremoto politico occidentale, le cui conseguenze ultime sono ancora da verificare.

Intanto «The show must go on» e sul palco del Quicken, nel tripudio di cappelli da cowboy, paillette e ragazze pom pom, è continuata così la processione di personaggi emblematici della «nuova gestione» e sbiadite personalità dello spettacolo, cominciando col presidente del campionato di arti marziali miste (Ufc), Dana White. La sua presenza apparentemente utile, a giudizio della dirigenza del partito, a illustrare come Trump, investitore anche nella federazione wrestling, oltre che in programmi di reality e concorsi di bellezza, sarebbe un «lottatore» per la nazione. Più che un’ ideologia del candidato, fra i cui slogan continuano a latitare effettivi programmi politici, la convention qui continua semmai a glorificare un’ estetica trumpista, e per la seconda volta in due giorni ha preso la parola una reduce del cast di Beautiful, l’attrice californiana e «coltivatrice di avocado» Kimberlin Brown che quale imprenditrice agricola si è detta certa che Trump «taglierebbe i contributi eccessivi che è tenuta a pagare ai propri impiegati».                      

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Tratta dalla cerchia delle conoscenze personali del magnate, apparentemente anche la «golfista cristiana» Natalie Gulbis, garante del carattere del candidato in virtù delle molte partite di golf condivise nei circoli di sua proprietà (e per aver partecipato al concorso reality Celebrity Apprentice prodotto da Trump.)
Il livello degli oratori è significativo anche alla luce delle assenze «pesanti» qui a Cleveland. Per la prima volta a memoria mancano all’appello della convention gli ultimi due presidenti repubblicani – i due George Bush – nonché l’ultimo rappresentante della dinastia, Jeb. Assenti anche gli ultimi due candidati del partito Mitt Romney, principale esponente della fazione anti-Trump e John McCain eroe di guerra e decano Gop, irriso da Trump per «essersi fatto catturare dai Vietcong». Anche fra gli «istituzionali» presenti, come il presidente della Camera e giovane promessa conservatrice Paul Ryan, fa difetto un genuino entusiasmo. Nel dare l’annuncio ufficiale della vittoria, Ryan ha calcato sull’importanza dei principi del partito, menzionando a malapena il nome di Trump, un candidato di cui aveva apertamente criticato le esternazioni razziste e sul cui endoresment ha «mantenuto il riserbo» fino al mese scorso. Alcuni dei giornalisti americani in sala stampa hanno creduto di ravvisare nel suo speech «tutto l’entusiasmo di una confessione di un prigioniero alla televisione nordcoreana».

Il vuoto è stato in parte colmato da Chris Christie, il corpulento e coriaceo governatore del New Jersey, primo fra gli ex avversari di Trump a dichiarare il proprio sostegno, e fino alla scorsa settimana in pole position come possibile vicepresidente (prima della scelta di Mike Pence). Christie, un ex procuratore, ha inscenato un processo a Hillary Clinton in cui ha enumerato i capi d’accusa ed emesso sentenza su ognuno. «Colpevole!» ha esclamato in coro il pubblico infervorato a ogni punto della «requisitoria», alcuni plausibili (la campagna militare in Libia di cui Hillary fu effettiva fautrice) altri lievemente esagerati («l’alleanza» con Assad), improbabili («complicità» con Russia e Cina) o del tutto risibili. Christie è giunto ad accusare la Clinton di connivenza con Boko Haram nel rapimento delle studentesse nigeriane affermando «non c’è regione al mondo che non sia stata infettata dal suo cattivo giudizio».

Il tipo di proclama emblematico della vera forza unificante di questo truce consesso: l’odio cieco e feroce per la candidata democratica. Un rancore espresso dal palco (un altro ex candidato, l’eccentrico teocon Ben Carson, l’ha accostata a Lucifero) e ovunque nelle strade invase da fedeli repubblicani, molti dei quali indossano magliette con la dicitura «Hillary for Prison» e nell’arena scandiscono «lock her up!» – rinchiudetela – chiedendo, come fa ripetutamente Trump che l’avversaria venga arrestata per i «molti crimini» e specificamente per le trasgressioni nella gestione delle email riservate durante il mandato da segretaria di Stato. Per i repubblicani è sia una battaglia di retroguardia che data dalla reciproca avversione durante la presidenza di Bill Clinton che una motivazione fondamentale per mobilitare gli elettori a novembre, nell’elezione generale che per entrambe le parti si profila in gran parte come scelta fra il minore dei mali.