La giornata di ieri, 14 novembre, ci ha fatto registrare un evento che i governanti faranno bene a valutare seriamente: la rottura di quella pace sociale sempre più fondata sulla rassegnazione e sull’impotenza, sempre meno sulla soddisfazione dei bisogni e la solidità dei diritti, di cui il partito della Restaurazione “nuovista” si alimenta. Questo cambio di marcia, questa accelerazione non ha copyright. Non quello dei metalmeccanici che hanno messo in campo la loro pur cospicua forza, non quello di una Cgil che si dispone allo sciopero generale, né quello dei sindacati di base, dei movimenti, dei precari, degli studenti o degli innumerevoli esclusi dal lavoro certificato e retribuito come tale. Il successo di questa giornata di lotta, che ha attraversato rumorosamente decine di città italiane, appartiene a una “coalizione” possibile, non intesa come sommatoria di diversi interessi categoriali e sociali, ma come intelligenza, pienamente politica, della necessità di scontrarsi con il modello neoliberista e con i dispositivi sempre più accaniti di estrazione di valore e di risorse da una cooperazione sociale che si estende dal lavoro dipendente a un multiverso di attività senza nome e senza reddito.

Uno scontro a tutto campo, dunque. Il sindacato sta forse cominciando ad accorgersi che, ormai definitivamente tramontata l’epoca della concertazione sacrificata sull’altare della “governabilità”, la conservazione del lavoro scambiata con il suo costante degrado è una pratica suicida, che la promessa della piena occupazione è diventata, dopo decenni di precariato e intermittenza, una indecente chimera, che autorizzare il lavoro gratuito (come nell’infame accordo con Expo) vuol dire aggredire quello retribuito, che non vi è difesa possibile dei diritti indifferente alla loro estensione. La parola “unità”, troppe volte usata per discriminare gli esclusi sospettati di ostacolare il compromesso con i “poteri riconosciuti”, potrebbe finalmente riacquistare un senso reale, inclusivo. “Coalizione” significa in primo luogo comprendere e combattere i nessi che tengono insieme il meccanismo generale dello sfruttamento, laddove la persecuzione fiscale del lavoro autonomo povero e poverissimo, l’economia politica della promessa e l’eterna giovinezza del lavoro gratuito contribuiscono a comprimere la dinamica salariale e sottoporre il lavoro dipendente a una costante minaccia. Laddove la sacralità della rendita finanziaria, e l’ artificiale scarsità delle risorse che ne consegue, perpetuano situazioni di estremo disagio in cui prosperano e ingrassano vecchi e nuovi fascismi.

Dallo “sciopero sociale”, paradossale congiunzione di due termini così differenti, se non antitetici, dovremmo avere appreso che non vi può essere “politica industriale” senza politica sociale, né politica sociale senza politica culturale. Per questo diciamo che lo sciopero sociale è uno sciopero politico, un sistema di lotte contro il “sistema paese” voluto dal “partito della nazione”. Capace di andare oltre le specificità e gli specialismi categoriali, non disertando il proprio immediato terreno di lotta, ma aprendolo. In questa direzione la giornata di ieri ci ha dato numerosi, seppur non definitivi segnali. È chiaro che, in un simile contesto, l’astensione dal lavoro, per chi ne possieda uno dal quale sia possibile astenersi, non sarebbe più sufficiente. Così molte forme di intervento attivo negli ambiti in cui viene tratto profitto dal lavoro gratuito o semigratuito o dal semplice esercizio della propria socialità si sono espresse nella giornata di ieri (dai luoghi della movida ai musei affidati ai volontari, dalle scuole alle università ai centri commerciali e alle agenzie di erogazione dei servizi).

Maurizio Landini ha più volte agitato lo spettro dell’occupazione delle fabbriche, come passo ulteriore ed estremo nella difesa del lavoro operaio. Per molti altri soggetti l’occupazione sarebbe invece il primo possibile passo contro l’uso speculativo o escludente del patrimonio pubblico o privato, per l’acquisizione di risorse negate e l’esercizio di un nuovo mutualismo. Tutto questo costituisce un “turbamento” dell’ordine pubblico e la polizia, intervenuta contro i manifestanti con manganelli e lacrimogeni in diverse città, si è premurata di ricordarlo sonoramente. Ma si tratta di un ordine la cui iniquità è tanto largamente percepita che questa volta il ritornello dei “professionisti dello scontro” ha avuto la decenza di restare silente.