«Tutte le dottrine anarchiche, da Babeuf a Bakunin, Kropotkin a Otto Gross, ruotano – – scrisse Carl Schmitt in un passo famoso della sua  Teologia politica  intorno a questo unico assioma: “il popolo è buono e il magistrato corruttibile”. Al contrario de Maistre dichiara buona l’autorità in quanto tale, per il solo fatto che sussiste: “ogni governo è buono una volta che è stabilito”». Colpisce leggere il nome dello psichiatra libertario Otto Gross (che fu, tra l’altro, in tormentata vicinanza con Max Weber e la sua cerchia) accostato a quelli dei grandi anarchici russi in un’ideale società degli eguali. Ma è al grande reazionario francese, al polo opposto di Babeuf, che Schmitt assegna il ruolo principale quale nume tutelare della sua teoria della decisione: sarebbe stato infatti de Maistre – il solo all’altezza di Donoso Cortes – a definire la decisione «come pura, non ragionata né discussa, non bisognosa di legittimazione e quindi sorgente dal nulla». Ed è appunto sotto questo aspetto, dell’infondatezza evidente e rivendicata dell’atto sovrano, che «i contrasti di autorità e anarchia poterono fondersi […] e costituire l’antitesi sopra descritta». Se de Maistre afferma che ogni governo è necessariamente assoluto, un anarchico – chiosa Schmitt – dice esattamente la stessa cosa, traendone però la conclusione opposta: tutti i governi devono essere combattuti, poiché non sono che dittature.

È anche alle luce di queste considerazioni non poco attuali che la proposta del Saggio sul principio generatore delle Costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane (Quodlibet, per le ottime cure di Andrea Salvatore, cui si devono anche la Presentazione e un testo conclusivo sul paradosso della legittimità, pp. 144, € 16,00) può portare l’opera di Maistre al centro di un dibattito filosofico-politico segnato profondamente, anche quando vorrebbe affrancarsene, dai paradigmi, per un trentennio abilmente intrecciati, della teologia politica, dello stato d’eccezione e della biopolitica securitaria.

Il raggio dell’attualità aveva d’altronde investito queste pagine sin dal loro apparire: pubblicando nel 1814 a San Pietroburgo e a Parigi (in un’edizione che, con forte turbamento dell’autore, violava il patto dell’anonimato) il pamphlet scritto cinque anni prima, de Maistre – spiega Salvatore – voleva rispondere alle tendenze liberali di Alessandro I quando l’istituto della monarchia assoluta per diritto divino subiva la minaccia esiziale delle spinte costituzionaliste. Era dunque un intervento mirato, carico di urgenza, che si apriva in grande stile con la polemica affermazione dell’esperienza storica (o della tradizione) sulle ambizioni della ragione. Alle questioni capitali della trattatistica tardo-settecentesca, de Maistre rispondeva infatti con argomenti non certo inediti (ad esempio, la soluzione anti-popolazionista, del fisiocrate  Quesnay o di Malthus, al problema della potenza statuale) ma scrupolosamente privati del loro carattere speculativo.

Non era per lui la razionalità economica a motivare in fondo le posizioni della fisiocrazia: era invece l’esperienza, cioè la storia «che è politica sperimentale» a smentire la pretesa evidenza logica (maggiore la popolazione, maggiore la potenza dello stato).

Se la partizione fra teoria ed esperienza veniva così tracciata con una mossa apertamente retorica a favore della mera fattualità, era perché l’a priori della storia restava per de Maistre… al di là della storia: egli era innanzitutto il fautore di una «metapolitica» o «metafisica della politica» compendiata dal biblico «Sono Io che faccio i sovrani», cioè dalla verità «semplice e palpabile» che «Dio fa i re, in senso letterale, prepara le stirpi reali, le fa maturare nel mezzo di una nube che ne cela l’origine».

In altri termini: l’autorità è divina perché basata su se stessa; semplicemente esiste, cioè si mantiene, quindi deve durare. Di qui l’inanità di ogni pretesa legislativa che non si adatti alla consuetudine: «Nessuna costituzione origina da una deliberazione: i diritti dei popoli non sono mai scritti, o lo sono soltanto come semplici dichiarazioni di diritti anteriori non scritti».

Le leggi sono vive e antiche come la  storia della nazione, vigenti sin dalla sua costituzione naturale, coincidenti con la sua semplice esistenza, dunque «più si scrive, più l’istituzione è debole». De Maistre non solo ricorda come il ruolo delle norme non scritte fosse già riconosciuto nel Digesto, ma si spinge ad affermare che la costituzione inglese è in realtà basata sulle eccezioni, che tendono a diventare «la regola» e alle quali si deve sempre ricorrere nei casi più importanti: «Ma che cos’è un’occasione rilevante? Provate, di nuovo, a deciderlo per iscritto».

Sta qui il cuore della teoria di Schmitt; e più opportuna che mai (ma forse perciò meno corrosiva) si rivela la celebre definizione di «decisionismo occasionale», coniata a proposito da Karl Löwith.

In tutto ciò, un aspetto critico viene alla luce: se la storia è fatta di casi eccezionali, è solo perché storica e per nulla eccezionale è la «nube che ne cela l’origine», una nube tutta scritta e leggibile: Dio, Natura, Sovranità, Nazione, Popolo, Politica, Governo… sono parole, o trucchi, direbbe l’anarchico, utili a far sorgere dal nulla il semplice monopolio della violenza.