Nei primi decenni del Novecento c’erano ancora nelle carte geografiche del mondo alcune macchie bianche: zone inesplorate e difficilmente raggiungibili per i viaggiatori occidentali, a causa sia dei pericoli ambientali che dell’assenza di controllo statale o coloniale. Ne parla fra gli altri Conrad in Cuore di tenebra, esprimendo il «delizioso mistero» di quegli spazi bianchi, che «un ragazzo poteva popolare dei suoi sogni gloriosi» rimanendone inesorabilmente affascinato.

Nel 1930, due giovani francesi, poco più che ragazzi, sviluppano un sentimento simile per Smara, la città del Sahara occidentale (nella zona denominata dal colonialismo spagnolo Río de Oro, tra il sud del Marocco e la Mauritania) fondata alla fine dell’Ottocento dallo sceicco Maa el Ainin.

Più volte distrutta e abbandonata, Smara si trovava in quegli anni al centro di un’area completamente fuori dal controllo del Marocco francese come di quello spagnolo, percorsa da costanti scontri fra contrapposti gruppi ribelli nomadi o seminomadi. La resistenza al colonialismo e l’avversione politica e religiosa dei gruppi locali, insieme alle proibitive condizioni ambientali del deserto e alla fitta presenza di bande di predoni, rendevano la regione e la città praticamente inaccessibili per gli europei.

È proprio questo ad accendere le fantasie e i desideri dei fratelli Vieuchange: Michel, ventisei anni, laureato in letteratura e con ambizioni di scrittore e poeta, e Jean, di diciotto mesi più giovane, con una formazione medica. L’idea di una esplorazione verso un luogo «proibito» e impossibile li ossessiona.

Organizzano dunque una complessa spedizione, facendo base a Mogador (l’odierna Essaouira), dove ottengono la protezione di un potente caid e l’indicazione di guide e appoggi locali.

Jean resta nella città per gestire l’organizzazione e gli eventuali soccorsi, Michel parte verso sud per quasi mille chilometri, armato di taccuino e macchina fotografica. Non parla arabo né berbero, ed è totalmente in balìa delle sue guide, che devono non solo indicare la strada, procurare provviste e cammelli, ma anche e soprattutto nasconderlo: un ruomi (cristiano, europeo) è mal visto, soprattutto se francese, e diverrebbe sicuro bersaglio di rapimenti volti a ottenere un riscatto.

Il viaggio dura un paio di mesi: Michel non viene rapito e, sia pure con grandi difficoltà, riesce a raggiungere Smara, dove per motivi di sicurezza potrà restare per sole tre ore. L’esito sarà però ugualmente tragico: sulla via del ritorno, contrae una acuta dissenteria che lo porta alla morte, subito dopo essersi ricongiunto con l’amato fratello.

Ciò che conosciamo dell’impresa dipende dai taccuini di Michel, che tiene un diario di viaggio accuratissimo, e dalle sue fotografie. Questi materiali saranno pubblicati nel 1932 da Jean, con la prefazione di Paul Claudel.

Il libro diviene un caso letterario, commentato dai maggiori letterati del tempo, come Mauriac, Aragon, Genet. Viene precocemente tradotto in inglese con l’ammiccante titolo Smara: The Forbidden City, entrando nel canone dei più famosi racconti di viaggio e di esplorazione. Esce adesso per le edizioni Settecolori la prima edizione italiana Smara Taccuini di viaggio (traduzione di Leopoldo Carra, introduzione di Antoine de Meaux, autore di una recente biografia di Vieuchange, pp. 280, € 25,00) e un inserto con alcune originali fotografie di Michel.

Si tratta però di un racconto del tutto anomalo rispetto ai classici del genere. La figura dell’esploratore eroico, che procede da dominatore su territori ignoti con stivaloni, fucile e casco coloniale, viene qui completamente rovesciata. Per la sua «incursione», come la chiama, Michel deve al contrario annullare la propria soggettività. Inizialmente si traveste da donna berbera, porta costantemente il velo per non rivelare ad estranei il suo aspetto, si preoccupa per le sue caviglie troppo bianche; in tappe successive viene nascosto in una cesta portata dai cammelli, come se fosse un carico di zucchero.

Resta in balìa delle sue guide, delle quali non si fida mai completamente, sentendosi trattato come un oggetto e temendo costantemente di essere tradito e venduto. E anche le difficoltà del viaggio sono in sé ben poco eroiche: il male e le infezioni ai piedi, il caldo estremo del giorno e l’estremo freddo della notte, la scarsità d’acqua, le difficoltà nel cavalcare i cammelli, il costante tormento di pidocchi e mosche. Quel che fa Michel, oltre a nascondersi, è osservare (da sotto il velo, da feritoie, dagli spazi angusti in cui è confinato) e soprattutto scrivere. Scrive anche nelle situazioni più difficili – a dorso di cammello, o nella notte col più fioco lume.

Straniero in terra straniera, è la scrittura l’unico strumento che lo tiene agganciato a una domesticità del mondo, alla storia da cui viene. È una scrittura che trova i suoi momenti migliori non tanto nei passi più scopertamente letterari, che suonano anzi retorici e presuntuosi, quanto nelle piccole notazioni quotidiane. Michel rivela in esse una spiccata sensibilità antropologica, malgrado la sua necessaria invisibilità non gli consenta interazioni sociali significative, né tanto meno una ricerca «partecipante». Ad esempio, è molto attento ad annotare le tecniche del corpo dei nativi, i modi di mangiare e di camminare, la gestualità e i giochi di sguardi, le diverse regole dell’igiene e della «purezza», le forme di cerimonialità.

Riflette al tempo stesso sui risvolti morali dei rapporti in cui è implicato, che gli sembrano muoversi su un sottile confine tra sincerità e doppiezza, tra la voglia di essere «uno di loro» e la consapevolezza che non lo accoglieranno mai nella loro comunità morale.  Alla fine della lettura, ci si chiede quale forza abbia spinto Michel verso la sua mèta. Scatta fotografie, raccoglie campioni naturalistici, abbozza mappe, e nelle poche ore a Smara studia le rovine come un archeologo o uno storico dell’arte.

Ma non è la conoscenza a motivarlo, e neppure la prospettiva di trasformare l’avventura in letteratura. È piuttosto l’impresa in sé, come raggiungere la vetta per uno scalatore: prova di volontà e di forza spirituale, nella prospettiva neoromantica propria di molti esploratori. Michel non viaggia per poi realizzare un’opera d’arte, o tanto meno un saggio scientifico: l’opera d’arte è il viaggio stesso. Ed è in questo senso che Jean Genet poteva affermare che Vieuchange è «un artista, e un artista di genio».