Nel secondo anniversario della sua rielezione, Papa Francesco ha annunciato la convocazione di un Giubileo, di un anno santo straordinario dedicato alla misericordia. E la misericordia è certamente la cifra profonda del papato di Francesco, probabilmente la ragione più importante del suo straordinario successo.
La chiesa misericordiosa che il papa argentino sta cercando di costruire è agli antipodi di quella voluta dai suoi due ultimi predecessori. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno infatti sempre, per così dire, giocato sulla difensiva, senza mai mettersi all’inseguimento delle pecorelle smarrite negli anni turbolenti del post-concilio o per effetto della dilagante secolarizzazione.

Per entrambi, la ritrovata forza della Chiesa nel nostro tempo sarebbe derivata dalla sua capacità di rimanere coraggiosamente in piedi in un’epoca in cui tutte le altre istituzioni, i nemici di un tempo, erano in ginocchio o addirittura venivano annientate: il socialismo sovietico, ma anche lo stato laico occidentale e tutte le ideologie tanto a lungo rivali del cattolicesimo. In un mondo dominato dall’incertezza e dall’angoscia, la Chiesa si sarebbe offerta come l’unico approdo certo, l’ultima istituzione solida in un mondo diventato liquido. La loro chiesa, aggiornata solo nelle tecniche e negli stili comunicativi, sarebbe divenuta quel pilastro culturale autoritario e severo al quale le élites e le masse della vecchia Europa avrebbero dovuto rivolgersi per ricostruire un mondo, quello occidentale, altrimenti destinato ad un’inesorabile declino; il padre, duro ma giusto, che attendeva sull’uscio il ritorno del figliol prodigo deluso dalle utopie del Novecento.

La rottura di Bergoglio con questa visione della Chiesa è stata totale, assoluta. Il papa argentino ha compreso, e si tratta probabilmente di una scelta autentica, di una mossa genuina e convinta, che la via intrapresa dopo Montini da Wojtyla e Ratzinger avrebbe condotto la Chiesa Cattolica, con tutti i suoi «No», i suoi perenni dinieghi, a divenire non la più autorevole, ma la più odiosa e odiata delle istituzioni religiose. Per questo, egli ha rovesciato l’approccio e ha messo al centro del cattolicesimo l’uscita, lo slancio missionario, il viaggio verso le periferie, l’abbandono delle retrovie, il dialogo con i lontani. Francesco ha compreso che una fascinazione immensamente più grande di quella che proviene dal genitore severo che attende sull’uscio il ritorno dell’errante può derivare dal padre misericordioso che si metta alla ricerca della pecorella smarrita e che, una volta ritrovata, la abbraccia, la comprende, la perdona. E soprattutto non la giudica. Francesco ha capito che il mondo è cambiato, che quell’universo autoritario e inflessibile centrato sul dolore della colpa nel quale la Chiesa ha prosperato per secoli non esiste più o è divenuto assai marginale. Le donne e gli uomini del nostro tempo non accettano più il giudizio morale esterno, l’invasione delle coscienze, quel senso di superiorità morale che la Chiesa col dito ammonitore sempre alzato di Wojtyla e Ratzinger inevitabilmente si attribuiva. E che diventava boomerang quando la stessa Chiesa veniva colta in fallo.
Bergoglio ha cambiato decisamente rotta, decidendo di andare incontro alle sofferenze degli uomini, di aprire un ospedale da campo dove curare gli afflitti e i bisognosi. Chiunque essi siano. E con l’umiltà della chiesa povera e per i poveri.

Ovviamente evviva, inizia una fase nuova nella vita della Chiesa. Rimane però un rischio, un pericolo non piccolo. Quello che questa chiesa misericordiosa, per voler accogliere tutti, rischi di aggiornarsi e di cambiare solo superficialmente. E di non impedire che, una volta scomparso Francesco, si possa tornare indietro. Per impedire che accada questo, la misericordia non basta. Ci vogliono delle riforme, delle riforme teologiche e istituzionali che stabiliscano un cambiamento profondo della struttura della Chiesa e della sua dottrina, quella stessa dottrina alla quale i conservatori, gli oppositori di Francesco, fanno appello e che Francesco non sembra intenzionato a trasformare, volendo limitarsi ad intervenire sugli aspetti pastorali. Un esempio per tutti: la questione dell’omosessualità. Un conto è l’approccio misericordioso che spinge, senza cambiare di una virgola le norme, ad inventare soluzioni pastorali per inserire in qualche modo, con qualche percorso ad hoc, gli omosessuali cattolici nella vita ecclesiale; un altro è cambiare la dottrina e il giudizio sull’omosessualità e avvicinarsi alle posizioni più progressiste in campo protestante. La differenza è grande. E soprattutto la seconda via genera risultati davvero storici ed epocali, difficilmente rovesciabili nell’incerta era post Bergoglio che ci attende di qui a qualche anno.