Mancano sei giorni all’approvazione della nuova Costituzione in senato. La data è già fissata, i tempi per la discussione quasi esauriti, la maggioranza con l’appoggio del gruppo Verdini fuori discussione. Strette tra l’accusa di incaponirsi sui dettagli procedurali e la sordità del Pd a ogni proposta di modifica, le opposizioni ieri hanno tentato una risposta unitaria. Seduti allo stesso tavolo forzisti, grillini, vendoliani, fittiani, leghisti ed ex 5 stelle: bozzetto dell’eterogeneo comitato referendario del No che verrà. Nel frattempo il Coordinamento per la democrazia costituzionale ha consegnato ai senatori di Sel e ai grillini 13mila firme raccolte online contro la riforma; volevano darle al presidente Grasso ma era impegnato.

In discussione in aula l’articolo 10 del disegno di legge Renzi-Boschi, quello che riforma il procedimento legislativo alla luce del nuovo bicameralismo non più paritario. La modifica è all’articolo 70 della Costituzione, oggi di sole due righe: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere». Al suo posto sette commi per ottanta righe. E quattro diversi modi di fare le leggi. 1) Leggi bicamerali, che dovranno passare tanto per la camera quanto per il nuovo senato: costituzionali, elettorali, sui referendum, sull’assetto degli enti locali, sull’ineleggibilità e sulle minoranze linguistiche. 2) Leggi a tutela dell’unità e dell’interesse nazionale: la camera avrà l’ultima parola ma dovrà respingere a maggioranza assoluta le proposte dei senatori. 3) Leggi di bilancio: il senato potrà proporre modifiche entro 15 giorni, la camera potrà ignorarle a maggioranza semplice. 4) Leggi monocamerali: tutte le altre, ma il senato potrà chiedere con un terzo dei suoi componenti di riesaminarle entro dieci giorni dall’approvazione della camera, alla quale resterà l’ultima parola a maggioranza semplice. Il sistema è talmente confuso che la nuova Costituzione prevede situazioni incerte, e stabilisce che in quel caso «i presidenti di camera e senato decidono d’intesa tra loro». Manca la cosiddetta norma di chiusura: e se non s’intendono? Diversi emendamenti delle opposizioni avevano proposto diverse soluzioni, ma alla maggioranza importa più approvare presto che approvare bene: tutte respinte.

Di fronte a questo blocco la mossa del fronte del no è stata la «resistenza passiva». Vale a dire nessun intervento sulla marea di emendamenti all’articolo 10 e libertà per Grasso di «cangurare» all’impazzata. Ne è venuta fuori un’altra seduta surreale in cui la presidenza metteva ai voti emendamenti incomprensibili (e inconoscibili visto che dato il numero non sono stati stampati) che una volta bocciati stroncavano migliaia di altre proposte di modifica – procedura che, è bene ricordarlo, il regolamento del senato non prevede ma è presa per analogia dal regolamento della camera, dove però è esclusa per le leggi costituzionali. Nessun problema di tenuta per la maggioranza, che però nel primo voto palese è scesa sotto la soglia della maggioranza assoluta (149 no) e poi due volte di nuovo nei voti segreti (153 e 154 no; la maggioranza assoluta è a quota 161). La spiegazione più probabile è che la piegata minoranza Pd abbia voluto dimostrare quanto sia indispensabile a Renzi il gruppo di Verdini. Il quale ex braccio destro di Berlusconi è ormai incontenibile, e sullo slancio sta tentando di aggregare ai suoi 13 senatori (che ancora per tre giorni saranno 11 vista l’espulsione dei gesticolatori Barani e D’Anna) qualche pezzo pregiato del disorientato gruppo di Alfano: ieri ha voluto incontrare a quattr’occhi in una saletta al primo piano di palazzo Madama il senatore Quagliariello.
La «resistenza passiva» dovrebbe servire a dimostrare l’impenetrabilità della maggioranza a ogni discussione nel merito, chiusura che diventerà più grave quando si affronteranno gli articoli 21 (elezione del presidente della Repubblica) e soprattutto 39 (la norma transitoria che al primo comma, ormai immodificabile, smonta la «conquista» della minoranza Pd sull’elezione quasi diretta dei senatori). Ma la mossa delle opposizioni si spiega anche con il tentativo di conservare un po’ del tempo rimasto per gli interventi in aula e con l’obiettivo di richiamare l’attenzione del Quirinale. Non si esclude un accorato appello al capo dello stato, magari in una conferenza stampa da convocare tutti insieme, dai leghisti a Sel. Esclusa per il momento, se non forse per il voto finale di martedì prossimo, l’uscita dall’aula. «Non andiamo all’Aventino, assolutamente, è un’esperienza storica che non abbiamo mai condiviso», ha detto il capogruppo di Forza Italia Romani citando il precedente dell’assassinio Matteotti. Ed evidentemente dando ragione, postuma, ai comunisti del 1924.