Punirne cento, duecento, diecimila per identificarne uno. Forse. E non è detto. E’ la logica della privatizzazione di un pezzo della giustizia. Colpire a caso, insomma, provando a rintracciare un colpevole.

E’ esattamente quel che sta avvenendo in queste settimane.

Protagonista la Piracy Shield, la piattaforma regalata dalla Lega Calcio – ed elaborata da una strana start up, una costola dello “studio legale Previti” – ad Agcom, che da un mesetto è attiva per combattere la pirateria nelle trasmissioni delle partite di serie A. Il “pezzotto”, come lo chiamano tutti e come lo chiamava anche Bobo Vieri in una prima versione di quel brutto spot televisivo trasmesso da Dazn e Sky, pagato dal governo.

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Perché Piracy Shield ha prodotto esattamente quello che tutti – ma tutti tutti, dalle associazioni per i diritti digitali alle organizzazioni dei provider – avevano previsto: le immediate e non controllate misure di “blocco” per chi è sospettato di diffondere le partite in streaming senza autorizzazione hanno finito per colpire anche e soprattutto chi non c’entrava nulla.

Era previsto e prevedibile. Un po’, un po’ tanto, per scelta politica: appunto la “privatizzazione” di un pezzetto della giustizia. Perché Piracy Shield funziona così: i titolari dei diritti (Sky, Dazn, Now, e le altre) e solo loro, hanno il potere di segnalare alla piattaforma gli indirizzi dei siti accusati di pirateria.

Nella segnalazione all’Agcom dovrebbero fornire prove sufficienti della violazione ma queste non sono e non saranno pubbliche. Poi, dopo la denuncia, anzi, meglio: solo in base alla denuncia, Piracy Shield fa partire un “alert” ai provider che devono bloccare gli indirizzi entro mezz’ora. Pena sanzioni. In un secondo momento, se qualcuno si ritiene “punito senza colpa” potrà fare ricorso (cosa di fatto impossibile, come vedremo).

Ma questo era previsto. Il prezzo pagato ai signori del copyright e ai signori del calcio. Meno prevedibile invece è stata l’incompetenza tecnica che accompagna questo primo mese della Piracy Shield.

Nell’ultima settimana la piattaforma ha deciso di bloccare centinaia di indirizzi IP, quella serie di numeri separati da punti che fin dagli esordi della rete identificano un dispositivo su Internet. Ma questa associazione – un indirizzo IP, uno strumento – aveva un senso forse trent’anni fa, un artefatto dell’ecosistema.

Oggi i DNS, una rete mondiale di server che consente di velocizzare le connessioni, “traduce”, cambia, modifica centinaia di milioni di IP al giorno. Per capire: uno studio di pochi mesi fa rivela che la somma di tutti gli IP “collegabili” ai più importanti siti internazionali di notizie Web raggiungono la cifra di duecentocinquanta milioni di indirizzi. Che vengono riusati, riassegnati, reinventati, spostati per raggiungere altre pagine Web.

Mille indirizzi IP possono essere in qualche modo associati al 60 per cento di tutti i domini nel mondo. Lo studio usa anche una metafora azzeccatissima per spiegare quel che accade: pensare di identificare (e punire) qualcuno tramite un IP è come “spedire una lettera e nell’indirizzo mettere solo il nome di una città. O nel migliore dei casi di un grattacielo con migliaia di persone”.

Invece, Piracy Shield ha chiesto e ottenuto finora il blocco di diverse centinaia e poi migliaia di codici numerici. Ma se blocchi i contatti tramite un IP corri il rischio, come detto, di coinvolgere anche i server DNS collegati. Blocchi tante altre cose, insomma.

All’inizio, nelle settimane scorse, qualche utente se n’è accorto. Un po’ casualmente. Perché un altro elemento emerso in questi giorni è che chi deve visitare un sito “fermato” semplicemente non può arrivarci: non c’è alcun avviso né segnalazione che la pagina sia sottoposta alla censura di Piracy Shield. Semplicemente non si carica.

Due settimane fa, per dirne una, il blocco di un IP e la conseguente paralisi del DNS Zenlayer aveva portato all’impossibilità di navigare sul sito dell’Avoc di Bologna, una piccola associazione no profit che si occupa delle condizioni di vita nella prigione bolognese. Con quello dell’Avoc (pagina poi fortunatamente di nuovo raggiungibile), altri siti sono rimasti bloccati, come quello di una casa automobilistica coreana che fornisce supporto alle filiali europee.

Ma le denunce sono rimaste circoscritte alla rete, al passaparola delle mailing list. Poi, l’ultima gaffe, chiamiamola così.

Piracy Shield ha emesso la sua condanna sull’indirizzo IP 188.114.97.7.

Indirizzo “gestito” – termine improprio ma usiamolo per comprensione – da Cloudfare, colosso statunitense, uno dei più grandi gruppi mondiali per i servizi DNS distribuiti.

Le conseguenze: tantissimi siti Web perfettamente legali non sono più raggiungibili dall’Italia. Senza contare che il blocco nostrano è stato imposto anche ad altri indirizzi di DigitalOcean, Hetzner, “posti” dove si cambia IP con un semplicissimo click. I pirati insomma in quei casi non hanno avuto nulla da temere.

Previsto, prevedibile, ma senza conseguenze. Perché appena pochi giorni fa, il commissario  Massimiliano Capitanio, commissario Agcom, in una lunga intervista su Sky ha spiegato che fila tutto liscio come l’olio. Tutto bene, non “abbiamo ricevuto alcuna segnalazione di errore”. Il che è probabile perché le farraginose norme prevedono che il ricorso possa essere presentato solo entro cinque giorni dal blocco. Blocco e numeri IP che dovrebbero essere resi pubblici su una pagina dell’Agcom.

Ma sulla quale (come chiunque può constatare) oggi c’è solo il numero degli IP bloccati quotidianamente ma nessun’altra indicazione. L’Agcom sostiene che prima o poi gli indirizzi saranno pubblicati ma per ora nulla. Chi è stato bloccato senza motivo deve aspettare anche per protestare.

Qualcuno – con tante, tantissime competenze – in qualche modo spulciando sul sito è riuscito ad ottenere i primi numeri incriminati, quelli delle prima settimana, e li ha resi pubblici su github, il repository dove gli sviluppatori possono lasciare i loro lavori. E dove qualcun altro si è preso la briga di spulciare fra quei primi indirizzi “puniti”.

Scoprendo che Agcom ha “sfiorato” l’incidente diplomatico: per un’”inezia” ha rischiato di bannare il sito web di Fratelli d’Italia. Sarebbe stata la legge del contrappasso due punto zero.